E se il problema non fosse Pompei, ma i pompeiani?
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Ministro Franceschini, li precetti tutti oppure si dimetta
di Alessandro Giuli | 07 Agosto 2015 ore 19:45
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Il ministro della Cultura Dario Franceschini all'inaugurazione della Palestra di Pompei (foto LaPresse)
E se il problema non fosse Pompei, ma i pompeiani malpagati e quelli ignavi e sindacalizzati? So per certo che il ministro della Cultura tiene in modo speciale a Pompei, e che la disavventura en plein air della Palestra da lui inaugurata l’altro giorno, ma subito richiusa in faccia ai turisti per carenza di personale, gli è costata molta bile. Non appena nominato alla guida del Mibac, Dario Franceschini aveva immediatamente inaugurato una personale strategia della presenza nel sito archeologico. Nell’aprile del 2014 ha presenziato all’apertura al pubblico delle domus di Marco Lucrezio Frontone, di Romolo e Remo e di Trittolemo.
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Nell’estate dell’anno scorso ha attivato 150 tirocinii da 1.000 euro al mese, mettendo in cima alla lista Pompei (poi anche l’Aquila, la Reggia di Caserta, le zone terremotate, alcuni archivi storici); ha prolungato fino alle 22 l’orario d’apertura del museo al venerdì, ha firmato un Piano d’azione congiunto tra la Commissione europea e il governo italiano per accelerare i lavori del Grande Progetto Pompei (GPP), presenti l’allora Commissario europeo per la Politica regionale, Johannes Hahn, e l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Graziano Delrio. Di lì in poi, Franceschini ha ottenuto plausi ufficiali e complimenti amichevoli dall’Unione europea e dall’Unesco. E non è finita. Anche quest’anno il ministro dei Beni culturali ha continuato ad affacciarsi a Pompei, per mostre e conferenze e inaugurazioni come quella della sciagurata Palestra, ma sopra tutto ha vantato il reperimento di altri fondi: 55 milioni di euro destinati a interventi con progettazione avanzata fra Napoli, Certosa di Padula, Pompei, Ercolano e Stabia. Di fronte a tanto iper attivismo, abbiamo solidarizzato senza riserve con Franceschini quando, lo scorso 23 luglio, un’assemblea del personale convocata a sorpresa ha provocato la chiusura del sito archeologico e creato quel “danno incalcolabile che rischia di vanificare i risultati straordinari raggiunti nell’ultimo anno che hanno rilanciato l’immagine di Pompei nel mondo” (parole sue). E ci siamo ripetuti, con lui: “Non è possibile impedire che il sito resti aperto con personale in sostituzione, con il risultato di lasciare centinaia di turisti in fila sotto il sole. Chi fa così fa del male ai sindacati, ai diritti dei lavoratori e fa del male al proprio paese”. Sacrosanto. E dunque mai avrei immaginato che, meno di un mese dopo, l’eterno ritorno dell’identico si sarebbe beffardamente materializzato sotto i nostri occhi, con la stessa strafottente meccanica, aggravata dalle tronfie dichiarazioni ministeriali della vigilia: “Il vento cambia”. E come no.
La verità, ministro Franceschini, è che il vento non sembra destinato a cambiare, né in fatto di manutenzione ordinaria né per le emergenze improvvise, se non si intervenga alla radice. La politica delle inaugurazioni seriali e dell’ottimismo finanziario funziona sul piano del marketing e delle rassicurazioni psicologiche, ma è chiaro che non basta. Per sfuggire all’impressione di essere lì per ragioni essenzialmente cosmetiche (e io non lo penso affatto), lì al vertice dell’istituzione che fu gestita fra gli altri da Bottai, Spadolini e Ronchey, il titolare del Mibac dovrebbe ottenere ciò che ci ha già promesso: una modifica normativa che includa i siti culturali (da Pompei alla Scala di Milano, al Teatro dell’Opera di Roma e così via) alla lista dei luoghi pubblici essenziali, con la possibilità di precettarne il personale in casi e periodi eccezionali. Nulla di personale contro i lavoratori, che senz’altro hanno le loro ragioni. Quanto a Franceschini, sarebbe un modo per farsi rispettare e apprezzare ancora di più, oppure per dimettersi in caso di sconfitta.
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