Viale (Mazzini) del tramonto
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Nulla di personale, ma il cda Rai fa un po’ ridere. Parlano Minoli, Grasso e Cairo
di Salvatore Merlo | 05 Agosto 2015 ore 06:15 Foglio
“Per quanto brutti possano essere, i nomi non contano. Quelli sono come dei sottosegretari all’informazione ficcati a forza nel ripostiglio Rai, ancelle della politica che finiscono lì per compensazioni, redistribuzioni, partite di giro: c’è da trovare un posto a Tizio e Caio? Dove li mettiamo Mazzuca e Siddi? Ma alla Rai, ovviamente”. E insomma il consigliere Rai, il direttore Rai, il presidente Rai, dice Aldo Grasso, è un uomo virtuale, il cui cognome non conta nulla, si chiami Marsala – come Arbore e Boncompagni chiamavano l’abitante di Viale Mazzini ai tempi di “Alto gradimento” – o si chiami Mazzuca, Diaconale, Guelfi, Borioni o magari Campo Dall’Orto; in fondo potrebbero essere tutti soltanto un ologramma, un timbro, una voce sintetica, o una pila di documenti da firmare. “Ma la televisione è quello che va in onda, non è un posteggio”, dice Giovanni Minoli. Che poi aggiunge, abbassando la voce di un semitono: “… Non dovrebbe”.
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E dunque la Rai è una sostanza isolata che basta a se stessa, in un certo senso la sua divisione in fasce dirigenziali, corridoi e piani, sfere d’influenza e vassallaggi politici, tutta la sua struttura interna si rivela di una semplicità perfetta ma sostanzialmente immutabile, anche al tempo di Matteo Renzi. L’archetipo negativo è affidato all’imperatore Caligola che “nominò” il proprio cavallo, e la presenza dell’enorme statua proprio di un cavallo a Viale Mazzini appare per certi versi significativa, per non dire simbolica. D’altra parte ieri non s’è fatto in tempo a nominare i sette membri del consiglio d’amministrazione, che in azienda era già tutto un cicca cicca telefonico: “Ma tu Campo Dall’Orto lo conosci? Eddai, presentamelo”. E forse oggi la Rai avrà anche il suo nuovo direttore generale, (Campo Dall’Orto?), poi un nuovo presidente, uno tra quei nomi che circolano sui quotidiani che intanto giocano al totonomine, strizzano l’occhio, accarezzano le vanità di ciascuno, inseriscono le fotografie di Stefano Folli e di Giulio Anselmi, di Barbara Palombelli e di Paolo Mieli, di Bruno Vespa e di Antonella Mansi, per corteggiare o sfotticchiare, a seconda dei casi. E c’è anche si fa indietro, chi rifiuta, come Vespa e come Mieli, e c’è chi si tira fuori perché non ha possibilità, chi lo fa per farsi notare ancor di più e chi invece si sottrae per non sporcarsi, come sarebbe capitato all’incolpevole Ferruccio de Bortoli, due voti ieri in Cda: lo avessero eletto suo malgrado, vista la compagnia, forse si sarebbe dimesso un minuto dopo.
In azienda, invece, nel palazzone color pidocchio di Saxa Rubra, dietro le sbarre di Viale Mazzini, prendono tutto molto sul serio. Ma non è una febbre, non si registra nessuna inquietudine dello spirito, “è la regola, la prassi, l’eterenità di foresta”, dice Minoli, che l’azienda la conosce per averla abitata tutta la vita. Perciò il dottor Marsala della Rai non teme proprio nulla: ben vengano i politici, si riciclino pure i vecchi parlamentari… I più intelligenti come Minoli profetizzano un capolinea: “E’ un sopravvivere verso un’esplosione di sistema che, comunque, avverrà e che nessuno può fermare. Il progetto editoriale non importa a nessuno”. E Grasso: “Si nomina per nominare chi fa delle nomine”. Sembra uno scioglilingua. “Pensavo che, per una nuova Rai, i consiglieri fossero scelti in base a qualche competenza. Se non televisiva, che ne so… contabile. L’unico che fa eccezione è Freccero. E sarebbe stato bello se lo avesse eletto il Pd. E invece no. Quel posto è un ministero irredimibile. Ma se non si svegliano finisce male, qui arriva Netflix, il mondo avanza, si fanno accordi e sinergie. Alla Rai rimane solo una cosa da fare, licenziare tutti e ricominciare da capo. Altro che nomine”.
Ma nessuna attività dà più gusto al potere che “fare le nomine”. Se poi si considera che i nominati dovranno, com’è nel caso della Rai, procedere a loro volta ad altre nomine, questa circolarità distributoria, questo privilegio destinato a moltiplicarsi a cascata, questo sistema articolato di premi e riconoscenze va al cuore stesso della questione. E allora ci si chiede che farebbe un imprenditore, uno come Urbano Cairo, che è l’editore di La7, se fosse il capo della Rai. “Cercherei di decidere una volta per tutte se questa è un’azienda che fa tivù commerciale o se invece deve onorare il canone facendo del servizio pubblico”, risponde lui. “Se è una tivù commerciale, però, diventa complicato spiegare quel miliardo e mezzo di canone che riceve dai contribuenti. Se invece è servizio pubblico, deve cominciare a produrre contenuti esportabili, culturalmente validi, come fa la Bbc. Deve recuperare la sua funzione originaria”. E cosa impedisce alla Rai di esplodere, di scegliere? “Eh, la lottizzazione. Sembra più importante fare le nomine che decidere sul prodotto televisivo. Il potere politico vuole degli spazi, il che può essere anche legittimo. Il guaio è che di tutto il resto francamente se ne infischiano. E si vede”.
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