Storia e passione di Laura Boldrini, regina dell’ovvio dei popoli
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Una donna di incrollabile gravitas terzomondista e benecomunista e di sempre più dolente preoccupazione per i bisognosi e gli oppressi del mondo tutto. Come sono stati i primi due anni della presidenta della Camera (grandi risate)
Vignetta Vincino (foglio)
di Marianna Rizzini | 30 Luglio 2015 ore 13:22 Foglio
Roma. E il liberismo che ci distruggerà tutti manco fosse l’Ebola, e la Carta dei diritti di Internet che invece ci salverà, e la “sfida del cambiamento” che deve essere sempre “accettata” (come sottrarsi?), e il “disamore della gente” da contrastare, e la precarietà da deprecare, e il mar Mediterraneo che, come ti sbagli, deve farsi “ponte” , e soprattutto la sinistra, ovviamente “unita”, che deve combattere “le diseguglianze”, oltre alla malapianta della disoccupazione: chi più ne ha ne metta, nell’agenda anche soltanto verbale di Laura Boldrini, presidente della Camera (lei direbbe “presidenta” – battaglia contro le discriminazioni linguistiche).
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Una donna di incrollabile gravitas terzomondista e benecomunista e di sempre più dolente preoccupazione per i bisognosi e gli oppressi del mondo tutto. Eppure mercoledì scorso, durante un’intervista ad Agorà, c’è stato spazio anche per il diseredato a modo suo Ignazio Marino, sindaco di Roma in bilico, fresco di rimpasto e svegliatosi con qualche nome di assessore a sua insaputa. Naturalmente Boldrini l’ha compreso, in empatia, come uomo che a Roma si è trovato “in una situazione veramente difficile”. E insomma, dopo due e passa anni di Boldrini sullo scranno più alto di Montecitorio, e dopo un libro che è anche un “vaste programme” dal titolo evocativo (“Lo sguardo lontano”, ed. Einaudi), non si può fare altro che ascoltare le ultime esternazioni della terza carica dello Stato – sui vitalizi, sugli immigrati, sulla paura “alimentata ad hoc” per ragioni elettorali. Ascoltare, sì, ma pure ricordare, se soltanto vagamente si ricordano le precedenti dichiarazioni boldriniane su Miss Italia (ben venga se sparisce dagli schermi, è il concetto di area “corpo delle donne”), sulla “pubblicità sessista” che guai a come rappresenta non solo il corpo ma anche la mente femminile e sulla “mobilità sociale pressoché bloccata”. Non si può che innalzare al cielo un gigantesco “maddai?”. Ma poi come si fa, in fondo in fondo, a essere in disaccordo, devono pensare i cittadini di fronte alle mille frasi buone&giuste o belle& buone dette e ripetute da Boldrini dal giorno dell’insediamento a oggi, tutte appartenenti in qualche modo alla categoria “ovvio dei popoli”.
E se oggi, Boldrini dixit, “la conoscenza è un diritto per chi naviga sul web” (ovvio che sì), ieri c’era bisogno, Boldrini dixit, di “impegno per la restituzione della piena dignità a ogni diritto” (ancor più ovvio che sì). Si era nel primo giorno dell’èra Boldrini a Montecitorio, dove la ex funzionaria Onu esperta di rifugiati e programmi alimentari (Unhcr) era arrivata quasi senza accorgersene (modestia a parte), molto sconcertata per l’onore tributatole prima da Nichi Vendola nel candidarla alla Camera con Sel e poi dal Pd nel fare il suo nome da società civile per la carica di presidente dell’aula, con l’intenzione di placare, con la nomina di una personalità da “società civile”, le orde dell’anticasta scatenate sul web e nelle truppe neoelette a Cinque Stelle. Ma una volta che lo eleggi, il presidente della Camera, non puoi sapere che cosa ti aspetta: si è visto Gianfranco Fini farsi uomo della speranza di una cosiddetta “destra europea mancante”, ma con fan a sinistra – speranza presto eclissatasi assieme al suo paladino. E si è visto Fausto Bertinotti farsi alfiere della gauche che all’occorrenza sa anche essere di mondo, e a mandato concluso può anche divertirsi a recitare poesie di Thomas Eliot a una kermesse di Alda Fendi. Ma chissà che cosa può diventare Boldrini, che sinistra di mondo non vuole essere, al punto da scoraggiare qualsiasi illazione su un suo futuro ruolo alla testa di Sel e al posto di Nichi Vendola, come aveva pensato qualche osservatore l’inverno scorso, vedendola incline a intervenire nel dibattito politico su i più diversi argomenti, ma sempre con la stessa aderenza alla cosa che non si può (ovviamente) non dire se si appartiene ai ranghi dei giusti e buoni e altruisti e consapevoli del male dilagante.
D’altronde Boldrini, come scrive lei stessa in “Lo sguardo lontano”, “a diciannove anni, figlia di famiglia borghese”, iniziava “a capire il conflitto sociale”. E bisognava intuire l’andazzo già al discorso di insediamento, quando il presidente (presidenta) della Camera, con l’accento maceratese lievemente aspirato con cui in seguito sottolineerà la candidatura al Colle di Stefano Rodotà (“Rodo-thà”, si udiva durante lo spoglio delle schede), inanellava tutte le citazioni giuste al posto più che ovviamente giusto: ecco la “sofferenza sociale”, e la “generazione che ha smarrito se stessa”, e le”periferie del mondo” (a quando una collaborazione Boldrini-Jovanotti?), e l’Europa che deve tornare a essere “crocevia di culture” e “grande sogno” di “fraternità, libertà e pace”. E quel discorso così pieno di pathos alter-mondialista, ideale proseguimento dell’iniziale carriera di giovane volontaria “campesina” in Venezuela, negli anni Ottanta, poteva ben diventare il canovaccio per l’azione capillare della Boldrini pasionaria.
Ma guai a dirle “gauche-caviar”, ché Boldrini non ama essere indentificata con i “conformisti” del “pensiero unico” e da salotto – e quando si è scagliata contro il pensiero unico, nel luglio del 2013, intervistata dal Fatto, ci si è cominciati a interrogare su che cosa fosse mai, allora, il pensiero unico, se per Boldrini non lo erano le politicamente correttissime parole di alcuni suoi discorsi, sempre perfettamente in linea con lo spirito appellista (cioè di quelli che fanno appelli per ogni apparente o reale buona causa). Vuole essere “casa della buona politica”, Boldrini, e vigilare contro i fascismi risorgenti, dice ogni 25 aprile, e far capire all’Europa dei burocrati che non si vive di solo pareggio di bilanci: nel 2012 è stata ad Atene, ha scritto nel libro suddetto, e tornava tutte le sere in albergo “scossa dall’angoscia e carica di interrogativi”, almeno quanto lo era da studentessa di Giurisprudenza in missione in Sudamerica, davanti a quei contadini che “…se ne stavano l’intero giorno con le gambe a mollo a piantare riso” e poi, “alle cinque della sera”, si rintanavano nelle baracche di lamiera, senza elettricità, senza acqua corrente”, e “mangiavano e stramazzavano sulle brande, per tornare nella risaia l’indomani mattina presto”. E quando, nel novembre scorso, il suo tweet su Ebola e il liberismo ha fatto discutere i commentatori e gli internauti (“#Ebola anche causa di tagli a spesa pubblica e privatizzazioni in paesi in difficoltà. Serve approccio complessivo per combatterla”), si è capito che quello era lo scatto di non ritorno: oltre l’ovvio dei popoli? Verso il populismo? Per i Podemos? Per il neostatalismo tsiprasiano (non ancora visto, allora, alla prova dei fatti)? Vallo a capire. Per ora Boldrini, che dalla tradizionale equidistanza del ruolo cosiddetto “di garanzia” si era distaccata per tempo (a Sergio Marchionne aveva fatto sapere, declinando per “ragioni istituzionali” l’invito a visitare uno stabilimento Fiat, che non si poteva “giocare al ribasso sui diritti dei lavoratori”), si accontenta dell’“atto senza precedenti”, la suddetta Carta dei diritti di Internet, mentre fa risaltare sul suo sito web la storia edificante di “Gladiola, studentessa rom con il sogno di una vita normale” (mancano soltanto i violini).
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