Le meravigliose metamorfosi del Fassina Zelig dall’Fmi a Tsipras
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Non fosse stato un serio e preoccupato viceministro dell’Economia del governo Letta, e un compassato responsabile Economia del Pd di Bersani, oggi forse non si rimarrebbe spiazzati di fronte alle Metamorfosi psico-mediatico-lessicali del Fassina descamisado
di Marianna Rizzini | 08 Luglio 2015 ore 06:08 Foglio
Roma. Non fosse stato, Stefano Fassina, un serio e preoccupato viceministro dell’Economia del governo Letta, e un compassato responsabile Economia del Pd a trazione Bersani, nonché, per anni, il volto da talk-show sofferente ma ragionevole cui toccava tenere insieme la linea Pd e quella dei tecnici, oggi forse non si rimarrebbe spiazzati di fronte alle Metamorfosi psico-mediatico-lessicali del Fassina descamisado che parla come nemmeno il Nichi Vendola d’antan. Non ci si crede: è proprio Fassina, il vero Fassina, quello che ora manda calorosi “abbracci” ai lettori del suo blog, commuovendosi altresì dalla Grecia per Piazza Syntagma che “stanotte era bellissima”? Ed è il vero Fassina quello che nelle ultime settimane, dopo l’addio al Pd, gira accaldato e senza giacca dal teatro Palladium alle vie di Atene, soddisfatto come un genio appena liberato dalla Lampada di Aladino?
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“Anche per me l’euro è insostenibile. Se io dico che piove, e lo dice pure Salvini, resta un dato oggettivo: piove”, dichiara solenne Fassina a Repubblica, dopo aver passato un weekend di rutilante lotta tra la platea dei fan di Pippo Civati e un corteo di sostenitori dell’“oki” greco. “Siamo qui per fare un partito politico, chiamiamo le cose con il loro nome”, ha detto con maniche arrotolate su un palco romano, ricorrendo alla metafora cinefila che nella sua vita precedente di uomo da convegno internazionale mai avrebbe pensato: “Evitate la sindrome di Jep Gambardella”, quella del “vuoto in cerca di contenitore”, diceva infatti Fassina al Palladium, al culmine del pathos, non sapendo scegliere tra Paolo Sorrentino ed Edoardo Bennato (ché il deputato ex Pd è convinto di poter raggiungere la famosa “Isola che non c’è”). E a quel punto la frase “vogliamo essere, assieme ad altri, un affluente di un fiume che vuole misurarsi con una prospettiva di governo” pareva mesta vestigia del passato che non torna: il Fassina istituzionale che sedeva composto e trattenuto sulle poltroncine di Bruno Vespa, con l’aria del fuori-linea a vita nel Pd renziano, tuttavia determinato a mantenere l’aplomb di uno che ha studiato alla Bocconi e ha lavorato per cinque anni al Fondo monetario internazionale, con specializzazione in pensioni sudamericane. C’è stato infatti un tempo in cui Fassina non disdegnava l’idea, per i paesi in via di sviluppo, di una privatizzazione “alla cilena” (sul modello di quella fatta nel 1981 da Josè Pinera, Cile di Pinochet), ovviamente con tutti i distinguo possibili e immaginabili e tutte le cautele e i correttivi democratici di cui il Fassina prima maniera infarciva gentilmente i discorsi di stampo non barricadero.
Né si riesce a capire quando il Fassina-Zelig si sia liberato della corazza di ex intervistato dal Financial Times, che, in chiave anti-B e pro Merkel, nel 2012 lodava Mario Monti e prometteva, in caso di futura vittoria pd alle elezioni, di non rinegoziare il Fiscal compact e di non abrogare il pareggio di bilancio in Costituzione: proprio da quel Fassina è uscito uno strano Frankenstein, durissimo con troike e burocrazie europee, sostenitore dell’abolizione via referendum dello stesso pareggio di bilancio (abbiamo sbagliato, ha detto un giorno) e fustigatore di titolisti della nuova Unità, rei di essere stati troppo severi con Tsipras sul taglio delle spese militari. Eppure – contrappasso – su Mondo Operaio Luigi Covatta gli contesta l’opposizione alla riforma della scuola, e gli mette contro le parole di Luigi Berlinguer, ex ministro della Pubblica Istruzione in guerra contro “quella parte della sinistra” che sostiene “il vecchio impianto neoidealistico”.
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