Ce lo chiede la gggente. Prima la magistratura, poi i tecnici, quindi i mercati. Ora è il turno del gentismo.
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Il passaggio da democrazia rappresentativa a democrazia diretta. Non solo Tsipras. Cui prodest? Indagine
Iniziativa del Movimento cinque stelle al nuovo mercato di Testaccio sul microcredito. Nella foto Luigi di Maio (LaPresse)
di David Allegranti | 05 Luglio 2015 ore 06:18 Foglio
Lo dice la gente, anzi la gggente, come Tina Pica a Vittorio De Sica in “Pane, amore e fantasia”. E la gggente ora dice che bisogna fare come Tsipras, anche se fare come Tsipras significa, quantomeno, cazzi amari. Bisogna fare il referendum sulle trattative tra quei puzzoni eurocrati e la Grecia, perché il popolo deve potersi esprimere. Così è nato un fronte pro-consultazione pure in Italia – da Sel a Beppe Grillo – per quanto sia facile fare i greci con il referendum degli altri. “Molto presto – dice il M5s – l’Europa del sud spezzerà definitivamente le catene dell’euro e dell’austerità, iniziando un nuovo percorso di alleanza sulla base della solidarietà e non dell’austerità; sulla base dei diritti delle persone e non delle merci; sulla base della redistribuzione e non del profitto di banche e multinazionali. Libertà, sovranità, democrazia e dignità non sono negoziabili per un popolo”. Non ci sarebbe di che stupirsi se qualche grillino in piena deriva sciachimista proponesse un referendum ombra anche in Italia (con quesiti greci, va da sé).
Bisogna fare come Tsipras, ma fino a qualche giorno fa c’era da fare come gli spagnoli di Podemos, ché quella è la sinistra che vince. Maurizio Landini diceva che bisogna fare come Podemos, Pippo Civati, che vuole mantenere un diritto di primogenitura sui nomi, diceva che “possibile”, il nuovo movimento-rete, si chiama così da qualche tempo e quindi non nasce sull’emotività del voto a favore di Podemos, ma comunque, sì, alla fine bisogna proprio fare come Podemos. E che bisogna fare come Podemos, sempre perché ce lo chiede la gggente, lo diceva anche Matteo Salvini, nuovo vero eroe di quelli che “ce lo chiede la gggente”: “Il risultato elettorale della Spagna e anche il voto in Polonia sono una bella mazzata per i difensori dell’Europa della banche e per i servi di Bruxelles”. E alla gggente non piacciono le banche e la tecnocrazia. Sulla retorica del territorio contro le élite, della gggente contro il Palazzo e di “quelli che fanno” contro i professoroni che chiacchierano, Matteo Renzi ci ha vinto il congresso del Pd e ci governa l’Italia, mentre il segretario leghista ci vorrebbe vincere la sfida con Berlusconi. Prima si doveva fare come Podemos, ma ora bisogna fare come Tsipras. Lo dice di nuovo Landini, lo dice pure Salvini, che vorrebbe far uscire l’Italia dall’euro.
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La giovane deputata Giuditta Pini ha raccontato di recente questo episodio su Facebook: “In treno di ritorno da Bologna una signora si siede e mi chiede: ‘Perché il treno è così pieno?’. Io: ‘Perché è appena finita la manifestazione di Libera’. ‘Ah….. e cos’è Libera?’ ‘Un’associazione contro le mafie’. ‘Ah. Fate bene voi giovani a manifestare, ma finché in parlamento ci mettono solo dei mafiosi’”. Ci vuole molta pazienza, ha aggiunto la giovane Pini. E come non ricordare Paola Taverna, senatrice del M5s, quando andò a Tor Sapienza e, di fronte alle contestazioni di chi non voleva politici, disse: “Ma io non sono un esponente politico!”. Ah beh, e il M5s cos’è, Caritas?, fu la replica, peraltro ineccepibile. C’è poi la questione dei quattrini, con la distinzione, nota fin dai tempi di Max Weber, di chi vive della politica e di chi vive per la politica. Enrico Letta, a “Che tempo che fa”, ha annunciato l’addio al Parlamento dal primo settembre. “Voglio vivere del mio lavoro come ho vissuto per un po’ di anni della politica”. E quella frase, “voglio vivere del mio lavoro”, è finita nei catenacci di giornale ed esaltata, come se appunto la politica non fosse un lavoro. Il problema non è di Letta, che vuole dimostrare che si può essere indipendenti economicamente dalla politica, e per questo non ricattabili dai capibastone, ma di chi è spinto dal riflesso pavloviano dell’esaltazione, variamente declinata. Nell’epoca del gentismo tutto deve essere sobrio: l’esaltazione mediatica e della gggente per il Letta che vive del suo lavoro è la stessa del candidato sindaco di Saronno Luciano Silinghini Garagnani che in campagna elettorale aveva annunciato di rinunciare allo stipendio (risultato: 2,58 per cento, non proprio un successone), della giunta di Pontremoli che riduce gli assessori (wow, da 4 a 3!), di quella di Padova che si taglia le indennità, di Luigi Di Maio che racconta all’Espresso di quanto sia bello viaggiare in seconda classe, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che prende l’aereo di linea per tornare a Palermo e non l’aereo di stato.
E così, riflesso dopo riflesso, cane di Pavlov dopo cane di Pavlov, che si esalta la decrescita (in)felice del M5s e dei suoi cataloghi di buone maniere; dalla rendicontazione ossessiva delle proprie indennità al loro dimezzamento a favore di un fondo per le piccole e medie imprese su cui, peraltro, ex esponenti del M5s hanno avuto qualche dubbio. Il gentismo, però, non lo hanno inventato i Cinque stelle; è persino roba vecchia, verrebbe da dire, e non ne hanno il monopolio. Neanche il renzismo ne è esente. E’ un’ossessione che ha contagiato anche Ivan Scalfarotto, che sul suo blog pubblica ogni trimestre stipendi e spese da parlamentare e da sottosegretario. Con un’avvertenza, giusto per non scadere troppo nel gentismo, scritta nel primo post, appena arrivato in Parlamento: “La prima e più importante premessa, è che uso il mio stipendio secondo la mia libera, prudente (e però insindacabile) valutazione. Lo dico per specificare che la condivisione di questi numeri non ha in nessun modo lo scopo di discutere il modo in cui spendo i miei emolumenti di parlamentare, ma solo di illustrare quanto del mio stipendio è destinato all’attività politica e quanto all’uso personale, familiare e – ma non è il caso – all’accumulazione o al risparmio. Mi perdonerete se non vorrò dunque partecipare in alcun modo a una discussione sul merito di come utilizzo i miei emolumenti. Non perché non tenga in considerazione i pareri di chi legge e di chi commenta, per carità. E’ solo che ognuno al mio posto farebbe diversamente e alla fine a decidere sul da farsi non posso che essere io”.
Ma qui – sia ben chiaro – non si vuole difendere l’indifendibile casta, si vuol dire, casomai, che così si fa di tutta l’erba una casta, perché lo vuole la gggente (e certe volte lo vuole pure la politica stessa, ma solo perché lo vuole la gggente). Salvatore Lupo, nel suo saggio sul “mito della società civile” pubblicato dalla rivista meridiana nel 2000, faceva la summa del pensiero antipolitico: “Lasciata a se stessa, mantenuta all’interno del ‘palazzo’, affidata agli uomini dei partiti con le loro arcaiche e bugiarde ideologie, la politica rappresenta una cosa inefficiente, costosa, sporca, cinica, inutile alla gente ma utile certamente a mantenere e a riprodurre indefinitivamente se stessa; ovvero i professionisti degli apparati e delle macchine elettorali, del sottogoverno e degli enti pubblici, ivi comprendendo quelli da sempre al governo e quelli in genere all’opposizione. La politica non va tanto ridimensionata quanto rigenerata, trasfigurata in qualcosa di qualitativamente migliore mediante un bagno nella società civile”. Eccola dunque la società civile che tutto monda dai disastri della politica. C’è stato il turno della magistratura, dei tecnici, dei professori, ora è il turno della gggente. Ed è complicato vivere in mezzo a due estremi; da una parte il professionismo della politica disposto a perdonarsi tutto, dall’altra la società civile che sa benissimo essere anche molto più incivile di quella politica. “Io vedo aleggiare, sulla politica attuale, due rischi simmetrici”, dice al Foglio il politologo Marco Tarchi, ordinario di Scienza Politica all’università di Firenze. “Uno è l’esaltazione acritica di una ‘società civile’ che viene rappresentata – soprattutto dai media – come per definizione onesta, disinteressata, laboriosa, produttiva, tollerante e chi più ne ha, più ne metta, e che per questo viene spinta, invece che a farsi un esame di coscienza per la corresponsabilità nei guasti pluridecennali della cosa pubblica in Italia, ad assolversi, considerare veniali i suoi peccati. A questo atteggiamento si associa un pernicioso elogio del dilettantismo, che potrebbe produrre altri seri danni. L’altro rischio, però, non meno e forse più pesante, lo abbiamo sotto gli occhi da tempo. E’ il frutto di un drastico abbandono del principio fondante della democrazia, il diritto del popolo a darsi il governo che preferisce, a vantaggio di altri presupposti, che vagano tra il primato dei tecnici e l’elogio di una presunta etica della responsabilità che solo i professionisti della politica saprebbero coltivare. Come ha scritto la più autorevole studiosa del populismo, l’inglese Margaret Canovan, la diffidenza verso il popolo, sfigurato in massa o ridotto alla caricatura dell’uomo della strada incompetente e ciarliero ha portato a fare del principio di rappresentanza uno strumento per arginare le possibilità di controllo dal basso dei processi decisionali e delle istituzioni e non per consentirle”. Il risultato, dice Tarchi, “è quel degrado della classe politica che ci affligge da molto tempo, condito di arroganza e malaffare. L’uomo qualunque sarà senz’altro incompetente, ma se il politico che ne dovrebbe guidare le sorti interpreta il suo ruolo, dietro la maschera ipocrita del servizio del bene comune, in termini esclusivi di carriera, guadagno e rendita di potere, non può certamente fargli da contrappeso. E trovare una via di mezzo fra questi due estremi, oggi, appare compito arduo”.
Il punto è che la politica ha le sue responsabilità. E’ anche colpa di se stessa se ha creato i presupposti perché nascesse l’antipolitica. Non è dunque colpa della cuoca leninista se oggi le viene data un’opportunità di sedersi su un alto scranno parlamentare. “Il richiamo alla cuoca di Lenin è arguto, ma basterebbe, se proprio di deriva si vuole parlare, fermarsi a quella populista. La mentalità del populismo – dice Tarchi – include, fra le sue caratteristiche, una visione iper-semplificata della politica, un dichiarato fastidio nei confronti delle mediazioni, la pretesa di una drastica riduzione del tempo necessario ad assumere decisioni e soprattutto a metterle in atto. Il che porta a far considerare irrealista questo modo di porsi di fronte alle cose. Ancora una volta, però, occorre chiedersi: perché, mancanza di realismo o no, la proposta e la protesta dei populisti – grillini inclusi – incontrano attualmente tanto favore? Non sono forse i politici di professione la causa dei propri mali? Come mai, se Grillo sostiene che guidare un paese è facile, basta ispirarsi al modo in cui si conduce un nucleo familiare, e proclama di volere come presidente del consiglio una casalinga madre di due o tre figli, che sa come far quadrare i conti di casa, invece di risate raccoglie voti? La risposta è semplice: perché un’ampia parte dell’elettorato non ne può più delle promesse non mantenute, del linguaggio ingessato dei vertici istituzionali (ci vorrebbe un’antologia della banalità per poterci racchiudere dentro tutti i luoghi comuni che da decenni, Cossiga in parte escluso, hanno riempito i discorsi dei Presidenti della Repubblica, specialisti della profezia dell’Ovvio), degli estenuanti minuetti fra i partiti attorno alle riforme che ci hanno afflitto sia nella Prima sia nella presunta Seconda Repubblica. Se Renzi ha avuto finora un consenso esteso ben al di là della cerchia dei fedelissimi del Pd, è perché lo ha capito e, con una lettura scolastica ma attenta del manuale del buon stile populista, si è appropriato dei codici linguistici e comportamenti tipici dell’antipolitica che ha raggiunto il potere. E non si stanca di sparare (a salve) sul quartier generale in cui si è insediato, suscitando l’applauso degli spettatori”.
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Lo spettatore applaude perché è sempre più abituato a farlo. Secondo il rapporto Demos “Gli italiani e lo Stato” del 2014, dal 2010 al 2014 la fiducia nei partiti è scesa dall’otto per cento al tre per cento. Ma finché sono i partiti, a perdere credibilità, passi. Il problema è un altro, dice la politologa Donatella Campus. “Il punto – dice al Foglio – è che a forza di minare così tanto la classe politica c’è un riverbero anche sulle istituzioni. E dalle istituzioni c’è un riverbero anche sui principi fondamentali, come la democrazia. Secondo i sondaggi di Diamanti, la fiducia nella democrazia è scesa dal 74 per cento del 2004 al 66 per cento del 2014”. E il 50 per cento pensa che la democrazia possa funzionare anche senza partiti politici. “L’importante dunque – dice la Campus – è capire che un po’ di antipolitica e un po’ di populismo sono il giusto stimolo e fanno bene alla democrazia; l’eccesso però finisce con l’avere ripercussioni gravi e la democrazia, come diceva Churchill, è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre. C’è dunque un problema da affrontare”. Anzitutto, dice la Campus, c’è un problema di selezione della classe dirigente “evidente in questa Seconda Repubblica. Gli iter in precedenza erano più articolati, le persone facevano politica attraverso percorsi meno estemporanei, c’era l’idea che le persone seguissero un certo cursus honorum prima di arrivare a posizione di vertice. Per questo oggi l’idea della formazione è importante, specie in un momento in cui si pensa che tutti possano fare tutto, che il cittadino possa fare qualsiasi cosa; io non sono d’accordo, penso che si debba tornare a fare un discorso molto serio sulla formazione. Il percorso di selezione bottom up delle primarie è stato ed è utile perché la politica doveva aprirsi a maggiore trasparenza e partecipazione, ma non si può dimenticare il discorso della formazione, delle qualifiche e delle competenze. La politica è una cosa che si impara, non che si improvvisa”.
E insomma, a furia di martellare con il martello di Nietzsche contro gli idoli della politica ormai al crepuscolo, l’astensionismo, dice la Campus, “diventa figlio di questa narrazione troppo forzata. Nella Seconda Repubblica eravamo abituati a partecipazioni altissime, mentre nel resto delle democrazie occidentali si è sempre votato di meno. Ma adesso non c’è più un astensionismo fisiologico, basta vedere quel che è successo in Emilia Romagna”. Perché la gggente dice che i partiti fanno schifo, che hanno fallito. L’unico modo per farsi votare dunque è sostituire la forma partito con la disintermediazione, assurta a forma di governo. E Renzi ne è la massima rappresentazione attuale; è un disintermediatore, frantuma i corpi intermedi, cerca un rapporto diretto con l’elettorato e il popolo. Un sembiante di democrazia diretta. Solo che questo modello comporta dei problemi. E lasciamo stare gli strepiti della sinistra che grida al bonapartismo ogni volta che c’è qualcuno che prova a governare (Giuliano Ferrara ha scritto sul Foglio che il punto è proprio che a noi italiani non piace essere governati). E’ tuttavia proprio Renzi a essersi accorto che la risposta immaginata da lui e da altri per rendere “leggero” ciò che è “pesante”, cioè partiti appesantiti non solo dagli scandali ma anche dalla propria struttura, non può funzionare come soluzione. “Se passa il premio alla lista – ha detto in un’intervista all’Espresso – serve una riforma del partito. Se questo può aiutare la discussione interna, sono pronto a discutere di albo degli elettori e a eliminare le primarie per eleggere i segretari regionali. Ritornare a un partito in cui essere iscritti, avere la tessera del Pd in tasca, significhi contare nelle scelte”. Tu quoque, Renzi? “Un partito che punta al premio di lista deve essere meno leggero di quanto io immaginassi in origine. Serve una strada nuova rispetto al vecchio modello di partito ormai superato, ma anche rispetto al partito all’americana che era il mio sogno iniziale. Un partito che non sia solo un comitato elettorale”. Dopo aver dunque pensato che tutto potesse risolversi con il carisma, con il quale vinci le elezioni europee, ma non governi un partito sul territorio (le recenti primarie ed elezioni regionali e amministrative lo dimostrano), dopo aver pensato che un partito potesse essere anzitutto una macchina da campagna elettorale da risvegliare solo in prossimità delle elezioni – perché per la gggente è più facile dire sì o no in determinate circostanze senza accollarsi l’onere della partecipazione quotidiana pubblica – adesso c’è un aggiustamento di rotta, a svantaggio del cane di Pavlov, che dovrà cominciare a salivare per qualche altra cosa.
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E insomma: la casta si merita il pubblico ludibrio; si merita la pernacchia e lo sberleffo. Siamo d’accordo, perché questa non è, lo ripetiamo, una difesa della casta. Perdiana, siete dei nominati, almeno al popolo date la possibile di incazzarsi quando sprecate i suoi quattrini! E dunque si taglia a livello centrale, ma si colpisce a livello periferico. La politica però non può essere gratis, perché la democrazia ha un costo. “Un reclutamento non plutocratico del personale politico, dei dirigenti e dei loro seguaci, è legato – scrive Max Weber ne “La politica come professione” – all’ovvio presupposto che dall’esercizio della politica provengano a questi politici dei redditi regolari e sicuri. La politica può essere esercitata o ‘a titolo onorifico’, e quindi da persone, come si è soliti dire, ‘indipendenti’, cioè benestanti, soprattutto in possesso di rendite; oppure il suo esercizio viene reso accessibile a persone prive di beni, che quindi debbono ricevere un compenso. Il politico che vive della politica può essere un puro ‘percettore di prebende’ o un ‘impiegato’ retribuito”. Se vogliamo tornare a una distinzione della politica fra notabili e impiegati, questa è la strada. Trovateli poi, dunque, assessori disposti in un comune a caso fra i 15 mila e i 30 mila abitanti a farsi dare della casta dalla gggente per 1.372,47 euro lorde. Ah, il gentismo, malattia infantile del populismo.
Ctegoria Italia