I parlamenti un tempo frenavano le imposte Ora le aumentano
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Ecco perché la rivoluzione popolare oggi non può che avere connotati populistici, nel senso etimologico del termine
Nicola Porro - Dom, 05/07/2015 - 17:57 Il Gioprnale
I parlamenti, storicamente, nacquero per difendere i cittadini borghesi dai soprusi fiscali delle corti.
In buona sostanza non si potevano elevare nuove imposte senza il consenso delle Camere. Il potere esecutivo veniva costretto da quello legislativo. Il principio, sacrosanto, era quello di contenere lo strapotere fiscale delle aristocrazie regnanti. Dal punto di vista del sovrano era un buon compromesso. Le grandi rivoluzioni sono nate proprio per le pretese sovrastanti in materia tributaria. Contenere o, meglio, giustificare una nuova imposta con un consenso dei ceti allora emergenti era un'assicurazione sulla vita delle classi dominanti.
Poi, con il tempo, le cose sono cambiate. Il primo ad accorgersene è stato Luigi Einaudi. In un suo discorso al Senato del 21 settembre del 1920 ( I discorsi di Einaudi , Libro Aperto, pag. 63) dice: «Da lunghi anni la rappresentanza popolare aveva perso ogni virtù di frenare le pubbliche spese. Da poco è avvenuta un'altra trasformazione. Mentre sinora le rappresentanze popolari resistevano alle richieste d'imposte, questa resistenza ora è venuta meno e si osserva una gara tra il potere esecutivo e il legislativo per concedere sempre nuovi aumenti di imposta». Quello che Einaudi vedeva negli anni Venti del secolo scorso, dopo cento anni è diventato ancora più conclamato. I parlamenti sono il motore primo degli aumenti fiscali. Il tributo ha preso una dimensione etica e positiva. Si sono introdotte tasse di scopo e di virtù (si pensi all'assurda Tobin Tax che avrebbe dovuto combattere la speculazione finanziaria). Ma ciò che a noi qui interessa è che il freno all'imposizione fiscale non è più affidato alle rappresentanze politiche. Anzi, queste la considerano una leva del cambio, uno strumento di dannata politica industriale o, peggio, distributiva. In una sorta di gioco storico dell'oca, oggi semmai sono i sovrani (governi) a proporre contenimenti fiscali che i parlamenti non accettano.
Ecco perché la rivoluzione popolare oggi non può che avere connotati populistici, nel senso etimologico del termine. La rappresentanza degli interessi popolari, in materia fiscale, non passa più dai corpi intermedi, che al contrario hanno tutto l'interesse (anche personale) a sostenere un apparato costoso e diffuso. Parlamenti ed esecutivi, sindacati e associazioni dei consumatori, come direbbe Einaudi, fanno a gara nel proporre l'imposta, a loro avviso, buona. Non vi è più un freno al sovrano. E se questo (cioè la classe dirigente politica in senso lato) non trova un contropotere sono guai. La rivoluzione oggi non distingue tra parlamenti e sovrani.
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