L’Italia non è un paese per Savonarola. Contro la magistratura politicizzata
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e contro i professionisti della morale. Cin cin e urrà. Il caso Venezia (ciao ciao Casson) come il caso De Luca: le repubbliche dei pm no pasarán. Storia di una gioiosa e riuscita gufata
di Claudio Cerasa | 16 Giugno 2015 ore 06:18
Cin cin! Abbiamo gufato gioiosamente, sì, e ci siamo detti tutti insieme che la sconfitta di Felice Casson sarebbe stata una bellissima notizia non solo per la nostra amata Venezia ma anche per tutta quella fetta forse maggioritaria del paese che crede con convinzione che dire di sì alla repubblica delle manette, dire di sì a una politica che sceglie sistematicamente di offrire il proprio sederino alla dittatura delle procure, sia un orizzonte culturale da evitare a tutti i costi per non trasformare l’Italia in una simpatica teocrazia guidata dai magistrati ayatollah.
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Brindiamo dunque alla magnifica, straordinaria e rotonda sconfitta di Casson in nome di un principio sacrosanto che grazie al cielo viene rispettato ogni volta che gli elettori vanno a votare, a meno che questi non si chiamino Ferdinando Imposimato o Marco Travaglio (un bacino dolce a tutti e due, slurp slurp). L’Italia non è, e non sarà mai, la repubblica del cialtronismo a vocazione grillina, di quei Savonarola convinti che alle procure debba essere affidato il compito di combattere non solo l’illegalità ma anche l’immoralità. Nonostante la classe politica non abbia ancora perso il vizietto di voler governare il paese per via giudiziaria, quando si ritrovano a scegliere tra un sistema che promuove la confusione dei poteri e uno che invece denuncia l’inaccettabilità di un mondo dove magistrati e politici e giornalisti al servizietto delle procure si confondono in un unico grande circo Baumann, gli elettori di solito scelgono sempre di votare in modo da respingere la repubblica dei pm. Il caso Casson è l’ultimo della serie anche se è un caso da manuale: un magistrato in carica, che non ha mai svestito i panni del pm, già membro del Pd in commissione Giustizia, che in nome della lotta all’illegalità e all’immoralità ha provato a cavalcare l’onda emotiva di un’inchiesta giudiziaria (Mose) che ha tagliato politicamente la testa all’ultimo sindaco della città (Orsoni). Tie’.
Contro i professionisti della morale ha vinto invece Brugnaro così come due settimane fa in Campania aveva vinto Vincenzo De Luca (cin cin anche per lui) sconfiggendo non solo Caldoro ma anche i professionisti della commissione Antimafia (e potremmo andare avanti per ore, pensate al caso di due anni fa di Luciano D’Alfonso, governatore d’Abruzzo scelto dagli elettori dopo essere stato mascariato dalle procure). In tutto questo c’entra naturalmente la storia di un pezzo d’Italia che considera impresentabili (ops) tutti coloro che allegramente sputazzano sulla storia della separazione dei poteri tra magistratura e politica (il caso Emiliano è un’eccezione alla regola). C’entra anche la storia di un pezzo di paese (da Venezia a Roma la strada è breve, caro Renzi) convinto che il modo migliore per combattere l’illegalità non sia un surplus di moralismo ma sia un surplus di efficienza. Ma c’entra anche la storia di un pezzo d’Italia che oggi nessuno riesce a rappresentare fino in fondo e che vede nella funzione ortopedica esercitata dallo stato (magistratura uguale stato al quadrato, uguale oppressione al quadrato) un cappio dal quale è sempre meglio rimanere distanti. Anni fa, in fondo, come ha ricordato magnificamente la scorsa settimana il nostro Salvatore Merlo, lo sosteneva anche Casson: “Ho visto l’esperienza di un altro giudice, Baltasar Garzón. Si era candidato come numero 2 del Psoe dopo Felipe González ma ha avuto un’esperienza negativa. Ha visto crollare la sua immagine nell’opinione pubblica e alla fine è tornato a fare il magistrato. Credo che occorra decidere: o si fa il giudice o si fa il politico”. Era il 1995. E oggi come allora il punto non è cambiato. E quando magistratura e politica provano a saldarsi il risultato è sempre quello: Perdemos, col cavolo che Podemos