La fragilità di Renzi spiegata in due tweet
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Il sindaco d’Italia senza sindaci. Il problema che tocca da vicino la leadership di Renzi riguarda un tema preciso: il segretario del più importante partito italiano che si ritrova a fare i conti con una base sociale quasi inesistente
di Claudio Cerasa | 068Giugno 2015 ore 12:00
Non pensate alle scemate. Quando Matteo Renzi si mostrerà ai delegati del suo partito presenti all’interno della direzione del Pd si perderà probabilmente molto tempo a parlare di (yawn) flussi elettorali, bilanciando con il misurino (yawn) i voti persi qui e i voti acquisiti là, la vittoria che c’è stata in quella regione a fronte della sconfitta che c’è stata in quell’altra regione (yawn) e con ogni probabilità anche il presidente del Consiglio cadrà nella sciocca e pigra trappola (triplo yawn) di confrontare il voto della scorsa settimana, quello appunto delle regionali, con quello di un anno fa, più rotondo e sonante, delle elezioni europee. Se fosse così, saremmo fuori strada e sarebbe un modo come un altro per pensare più alle scemate, appunto, che alla concretezza dei problemi che si trovano alle fondamenta del Pd renziano.
I problemi esistono ma sono del tutto diversi da quelli raccontati da chi prova a dimostrare che una vittoria per 5-2 sia in realtà una non vittoria (auguri e figli maschi). Il vero problema che tocca da vicino la leadership di Renzi è invece quello, più complesso, che riguarda un tema preciso: il segretario del più importante partito italiano che si ritrova a fare i conti con una base sociale quasi inesistente. Una base resa ancora più friabile dalla scelta deliberata da parte di Renzi di rinunciare al tradizionale e monolitico consenso preconfezionato della sinistra rappresentato storicamente dal sindacalismo operaista, dai magistrati, dagli insegnanti, dal pubblico impiego, e il cui unico collante vero oggi corrisponde a una miscela tanto esplosiva quanto potenzialmente fragile che è solo e soltanto quella: il voto d’opinione.
ARTICOLI CORRELATI Contrattazione aziendale e non solo. I piani di Renzi post Jobs Act Proteggere il renzismo da Renzi, nasce così il patto della Playstation Tesoro, mi si è ristretta la rottamazione E’ qui il vero problema, per nulla politicistico e politologico ma di centralità assoluta, del Pd renziano. E lo è a maggior ragione se si aggiungono due elementi che si stanno facendo sempre più carenti e friabili nella geometria del presidente del Consiglio. Da una parte Renzi ha scelto di costruire parte del suo consenso politico non tanto facendo perno sulle grandi famiglie di industriali raccolte sotto il cappello di Confindustria, quanto su nuovi e dinamici blocchi sociali rappresentati tanto dal mondo delle partite Iva quanto dall’Italia delle start up (il famoso quarto capitalismo, ci torneremo). L’operazione di Renzi è però riuscita a metà, e pur essendo stato da subito il presidente del Consiglio il naturale collettore dell’Italia non confindustriale (anche le limonate con Marchionne rientrano in questa cornice) il fatto che in un anno e mezzo a Palazzo Chigi il suo governo non sia riuscito a diventare il motore delle start up italiane (che a differenza dei grandi industriali non chiedono di ridurre di qualche decimale l’Irap ma chiedono semplicemente meno burocrazia e chiedono quantomeno di poter avere in Italia una deduzione fiscale per chi investe in nuove imprese più simile a quella inglese, 85 per cento del capitale, che a quella italiana, 19-20 per cento del capitale) costituisce un punto a sfavore importante per la costruzione di una base sociale forte e capace di essere un’alternativa stabile alle vecchie fondamenta della sinistra.
A tutto questo va poi aggiunto un altro elemento importante che si trova dietro l’instabilità renziana, se così si può chiamare, e che conta più della sconfitta in Liguria e che rischia di essere un punto cruciale per il futuro Partito della Leopolda. Si è detto un’infinità di volte che Renzi ha l’ambizione di muoversi sulla scacchiera nazionale con il passo del sindaco d’Italia ma quello che bisogna considerare in questa fase – punto centrale – è che il sindaco d’Italia oggi si ritrova senza il sostegno di una fetta importante del paese che era stata invece il motore della sua scalata prima al Pd e poi a Palazzo Chigi: i sindaci d’Italia. Non si tratta qui di raccontare la storia dei due ex sindaci irregolari eletti governatori della Campania e della Puglia (De Luca ed Emiliano) si tratta invece di inquadrare un tema più profondo e radicato che riguarda un’insofferenza potente legata a una serie di fattori che vanno messi in fila uno accanto all’altro e che hanno avuto l’effetto di far sbuffare persino i più renziani tra i primi cittadini italiani (da Nardella, sindaco di Firenze, fino a Gori, sindaco di Bergamo).
Un paio di temi su tutti: i tagli previsti per i prossimi mesi nei comuni (con conseguente anche se non inevitabile revisione al rialzo della tassazione locale), le mancate entrate registrate solo per il 2014 nelle piccole e grandi città pari a circa 800 milioni di euro (la cifra non è ancora certa ma secondo i calcoli del Mef si aggira tra i 600 e i 900 milioni), i sacrifici previsti nella prossima spending review (negli ultimi cinque anni, secondo la Cgia di Mestre, i vari governi che si sono succeduti in questi ultimi anni hanno tagliato alle regioni e agli enti locali 25,1 miliardi di euro), i 20 mila dipendenti delle province che ancora aspettano di capire dove andranno ricollocati. Una politica, questa, che se Renzi fosse ancora un sindaco di Firenze in lotta contro le prepotenze del romanocentrico stato centrale non farebbe fatica a definire come una ritorsione da parte del governo sulla parte più produttiva e vitale del paese: i comuni.
Mettete tutti questi elementi insieme uno a fianco all’altro e capirete perché le fondamenta del Pd renziano oggi non sono messe in discussione da un Fassina o da un Pastorino o da una sfilacciata minoranza del Pd ma sono messe in discussione da una base sociale che in questo momento sostiene ancora, facendo leva sul voto d’opinione, il modello Leopolda ma che per essere affidabile anche per il futuro ha bisogno di piantare radici solide. Ed è proprio su questo punto che il modello Renzi tarda a dare buoni risultati. E, come si sa, senza una base sociale alternativa e stabile sarà difficile per Renzi riuscire fare quello che promette di fare da mesi: cambiare davvero il paese.
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