Cosa può offrire al futuro centrodestra il plebiscito di Luca Zaia
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“Beh, così no, non me lo aspettavo”, ha detto, e subito si è messo a pensare al suo governo, “con questo risultato non ci sono alibi”. Allontanando le chimere nazionali: “Non ho ambizioni di questo tipo, davvero”.
di Maurizio Crippa | 03 Giugno 2015 ore 06:03
Milano. Appena più stempiato, sotto l’eterna spalmatura del gel, di quando accanto al Senatùr sul prato di Pontida era la vera star del popolo veneto – non della Liga, ma del popolo delle stalle e delle quote latte, lui laureato veterinario, lui amministratore e poi ministro dell’Agricoltura “con le scarpe sporche di terra” – Luca Zaia oggi ha l’aria determinata e rassicurante di un governatore cui è stato tributato un plebiscito, l’unico rieletto con oltre il 50 per cento dei consensi. Che questo modifichi il suo profilo pragmatico è da escludere: “Beh, così no, non me lo aspettavo”, ha detto, e subito si è messo a pensare al suo governo, “con questo risultato non ci sono alibi”. Allontanando le chimere nazionali: “Non ho ambizioni di questo tipo, davvero”.
Però ciò che è accaduto in Veneto è notevole – certo, la lunare inconsistenza della sua rivale lo ha aiutato – e va al di là, se non proprio contraddice, il dato politico che tutti in questi giorni sottolineano, cioè il successo della Lega 2.0 di Matteo Salvini, l’unico partito ad aver guadagnato consensi negli ultimi due anni. La Lega ha raddoppiato i voti del 2013 e li ha aumentati del 50 per cento rispetto alle europee 2014, arrivando a una proiezione nazionale che varrebbe il 15 per cento (ma c’è da fare i conti con il centro-sud). All’interno di questi dati, l’Istituto Cattaneo ha però sottolineato che proprio in Veneto per la Lega “si registra l’unica contrazione rispetto al 2014 (-9,7 per cento), plausibilmente spiegabile con il risultato eclatante della lista ‘del presidente’ collegata al candidato Luca Zaia”. Zaia è uomo di partito, e ha subito sottolineato che “la Lega ha fatto un grande sacrificio” per sostenere la sua lista. Ma questo non cancella che per lui si è trattato di un successo popolare, oltre 400 mila voti, il 23,1 per cento, mentre il partito si è fermato al 17,8. Un risultato nutrito in abbondanza anche dalla cannibalizzazione di Forza Italia, sprofondata al 6 per cento. Il trionfo di Zaia segnala almeno tre cose. La più importante è la conferma della vocazione moderata dell’elettorato di centrodestra veneto, sia quello leghista sia quello orfano di Galan e Berlusconi, più convinto dalla “normalità” al limite dell’apartitico del governatore che dal frontismo di pancia salviniano. Altro dato decisivo, in una terra tradizionalmente ostile alla sinistra come il Veneto la scommessa del nuovo Pd di intercettare sulla via del centro il voto in libera uscita da FI è fallita, senza alibi. C’è infine da tenere in conto l’avversione per il milanese Salvini della Liga Veneta, che almeno in parte non ha abbandonato Flavio Tosi, il segretario espulso, e che per storico Dna indipendentista non è entusiasta della svolta nazional-lepenista.
In questo quadro, Zaia emerge come una figura naturale di riferimento per il centrodestra prossimo venturo. Di qui a farne un player politico al di là della sua dimensione, forse insormontabile, di amministratore e di uomo del territorio ne corre: “E’ stata premiata la mia imparzialità”, è stata una delle sue prime dichiarazioni. Con diplomazia, il governatore ha anche fatto notare di non essersi mai presentato come uomo di partito: la linea della Lega la fa il segretario. Una prudente divisione dei ruoli. Nemmeno in passato Zaia si è mai esposto come politico ideologico. Stavolta ha lasciato che fossero Salvini e il destino già segnato a regolare per lui i conti con il rivale di sempre, Flavio Tosi. Ha detto con sicurezza che non ha intenzione di scendere a patti né con gli alleati né con i fuoriusciti che hanno seguito il sindaco di Verona. (La cosa non è così sicura: il nuovo Consiglio regionale ridotto a 50 membri non gli garantisce, nonostante la vittoria schiacciante, una maggioranza bulgara, e il rapporto con i tosiani dovrà essere forse coltivato).
Aveva finito la scorsa legislatura in affanno, con una maggioranza a pezzi. Colpa anche della sua non innata capacità di fare squadra, come gli hanno rimproverato gli alleati. Ma dopo il plebiscito Zaia è consapevole di rappresentare qualcosa anche oltre il Veneto. Non un’alternativa alla linea di Salvini, ma piuttosto un elemento ponte. Un modello di buongoverno da offrire a un programma unitario con quel che sarà il post berslusconismo. In quest’ottica non è escluso che, come in passato, il “buongoverno” veneto e le idee di un Renato Brunetta, propugnatore di flat tax e riforme liberali e veneto pure lui, possano incontrarsi di nuovo. Il mondo imprenditoriale, che pure aveva annusato con interesse le novità del renzismo, si è ricompattato su Zaia. Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Veneto, ha dichiarato che “il governatore ha già sul tavolo il nostro manifesto #Veneto2020”, la piattaforma delle riforme attese. Il Veneto di Zaia è il naturale cartello indicatore di una nuova fase del lega-forzismo, come ora Ilvo Diamanti preferisce chiamare quel che fu il forza-leghismo. Il politologo Paolo Feltrin ha notato che il Veneto è la regione che ha subito meno il fenomeno dell’astensione (meno 4 sulle europee, da paragonare al meno 11 della Toscana), segno che dove il centrodestra governa la disaffezione alla politica è minore. L’astensionismo, almeno da queste parti, è di sinistra.
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