Bombardamento afghano per un premier inceppato
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Controanalisi di una vittoria elettorale che forse non è proprio tale. Follow the money, il renzismo non governa dove c’è la ricchezza vera italiana: Veneto, Liguria, Lombardia
di Mario Sechi | 01 Giugno 2015 ore 20:36 Foglio
Il leader in Afghanistan, i sotto-leader su un altro pianeta. Ero ospite a Sky il day after elettorale mentre Debora Serracchiani snocciolava l’analisi del voto della segreteria del Pd. Il sotto e sopra testo del messaggio è questo: abbiamo vinto, poche chiacchiere, noi non sbagliamo mai. Clap clap clap. A quel punto ho avuto la certezza che l’ingranaggio renziano si è inceppato e non basterà ungerlo d’olio per rimetterlo in sesto. Serve il meccanico. In fretta. O il motore fonde. Il primo segnale era giunto la sera del voto quando l’estroso Filippo Sensi metteva in rete una foto eloquente: il premier che gioca alla PlayStation con Matteo Orfini. Ok ragazzi, siete tutti della via Pal, c’è un profumo di fritto misto, la fusione di nerd e sberleffo, ma ci sono momenti in cui un premier fa il premier e lascia che i calci al pallone li tirino altri. Mentre si faceva chiaro un risultato in realtà complicatissimo sul piano politico, Renzi sceglieva di buttare la palla in tribuna, anzi, sulla console della PlayStation. La Sony ringrazia. Poi sull’ultima schermata del videogame appare un messaggio. E’la dichiarazione del premier in rientro da Herat: “Risultato molto positivo, avanti con il rinnovamento del partito e il cambiamento del Paese”. Rieccolo, è finito in off-side. Non è la prima volta che gli capita.
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Ricapitoliamo. Mentre Vincenzo De Luca – l’impresentabile secondo i canoni dei neobindiani – in Campania salvava il risultato complessivo del Pd, Renzi preparava la borsa per il suo viaggio in Afghanistan. Basta PlayStation, elmetto e giubbotto antiproiettile. Fase heroes. E il premier torna a fare il premier, cribbio. Scusate, mi sono perso qualcosa nel tragitto per Herat: il segretario del partito dov’è? Missing in no action. Perdere la Liguria, vedere i candidati renziani cadere con un clangore che sa di metallo arrugginito, assistere all’affermazione di Michele Emiliano in Puglia (“il premier non mi ha chiamato”) e Vincenzo De Luca in Campania, due sagome che non combaciano mai con il profilo del segretario, lasciare il Nord al centrodestra a trazione leghista, subire un’umiliazione a doppia cifra – con il 2 davanti – in Veneto da Zaia che si beve la Moretti nonostante avesse un paio di problemi in casa (leggere alla voce Flavio Tosi), avere la tachicardia per il finale da Trotto & Galoppo in Umbria, è roba che forse merita qualche riflessione meno sbrigativa, ruvida, spiccia. Cose da dire non per chi scrive questo articolo – conto pochissimo, anzi niente – ma per chi vota e pensa che Renzi meriti fiducia. O no?
Renzi non governa in Liguria, Lombardia e Veneto. Ha il mite Piero Fassino che difende il fortino del Piemonte e Debora Serracchiani la cui frangetta presidia più gli uffici del Nazareno che il Friuli. Abbiamo vinto! Siamo er mejo! Zero tituli per Grillo (che intanto sulla carta del voto è il secondo partito), dieci a due! Ok, bravi. Avanti così mentre davanti a voi c’è una montagna disincantata, metafora di un racconto diverso rispetto alla novella dei renzisti con l’elmetto: il Settentrione, forziere del prodotto interno lordo italiano, se ne infischia del Pd di Renzi. La faccenda non è liquidabile in tre battute, credo. Niente. Neppure un monosillabo. La Lega governa la Lombardia con Roberto Maroni, il Veneto con Luca Zaia e fa l’azionista di riferimento del bravo Giovanni Toti in Liguria. Al centro del paese, altro pezzo della fabbrica italiana, la Lega fa numeri inimmaginabili fino a pochi mesi fa. E così anche i grillini. Saranno pure unfit per governare, ma l’Italicum per loro non sarà un gioco a somma zero. Oggi non governano da nessuna parte, ma domani possono vincere.
Tutto ruota intorno a quella cosa chiamata ricchezza e all’immaginario del Pd in cerca di una politica economica. La Lombardia ha un pil di oltre 300 miliardi di euro, ben più dell’Irlanda e vede all’orizzonte l’Austria. E’ Italia ma si potrebbe leggere Germania. Il Veneto con i suoi 130 miliardi è tre volte la Slovenia, supera di gran lunga la Slovacchia e ha un’economia decisamente più sana rispetto all’Irlanda, sede di multinazionali con lo sconto fiscale. Il Veneto è una regione in via di fuga. La Liguria con i suoi 44 miliardi e la sua crisi industriale sembrerebbe meno importante, ma non lo è: è il Mediterraneo, la via Genova-Rotterdam, è il porto della Lanterna, capitale dello shipping italiano, il suo pil è inferiore di qualche miliardo a quello della Croazia, migliore di quello di due su tre Repubbliche Baltiche, vicino a quello della Bulgaria e della Slovenia. Questo è il triangolo dell’economia e della finanza italiana.
Il quadro non è allarmante, è disastroso: dove c’è ricchezza, non c’è il Pd. Non c’era Bersani. E non c’è neppure quello 2.0 di Renzi. Tutto questo sembra non interessare il pacchetto di mischia di via del Nazareno: come un gruppo di rugbisti in trance agonistica va avanti a testa china, dritto verso... non si sa. Dieci a due! I ceti produttivi - non quelli riflessivi, eleganti e sempre in sella che vanno in terrazza e si riempiono la bocca di storytelling, non gli startappari con in testa modelli di business senza fatturato – non si fidano del Pd sciacquato in Arno perché il Fisco di Palazzo Chigi, questo sconosciuto, è ancora un gioco delle tre carte: 80 euro qui, una patrimoniale sui conti correnti là; un tfr qui (e non ha funzionato) e un’assunzione di precari della scuola là. E’ la scintillante ditta Prelievi e Balzelli all’opera. Film già visto in tempi normali e d’emergenza. Ma ora, con il petrolio a picco, i tassi a zero, la pax finanziaria e la Bce di Draghi che scuce 60 miliardi al mese, ora che si fa? Un Jobs Act, poi spesa pubblica e tasse. Leggete il Def che avete scritto, almeno quello, per favore. Tagli veri? Citofonare Cottarelli, aspettando Godot-Gutgeld di cui aspettiamo con ansia di vedere le mani di forbice. Sì, ma la ripresa c’è e ci sarà. E dieci a due! Certo, fenomeni. Allegria. E altro spunto per l’agenda del segretario fiorentino: il prodotto interno lordo del primo trimestre (i segnali li avevo anticipati sul Foglio, con zero reazioni dei cervelloni del governo, naturalmente) è trainato dal gruppo Fiat-Chrysler. Vedere i conti trimestrali dell’Istat diffusi il 29 maggio: i mezzi di trasporto fanno + 28,7 per cento, mentre tutto il resto è il quadro clinico dell’anemia economica. L’export? Zero. Senza tituli. La dura realtà è che senza la rivoluzione del gruppo Fiat voluta da Sergio Marchionne la crescita italiana nella prima frazione del 2015 sarebbe stata negativa. Very bello. Mi viene in mente uno spot della Chrysler per il Super Bowl: Imported from Detroit. Ecco, attaccatevi alla Jeep (prodotta in Italia, esportata in tutto il mondo) e mandate a memoria la lezione.
Le elezioni sono finite, presto si ricomincerà con il talk senza più lo show. Le regionali non sono importanti? Fanno anche sbadigliare? Può darsi, però il Pd è là, chiuso di nuovo nel ranch dei voti bersaniani, senza un avamposto dove si produce. E io mi chiedo dove voglia andare Renzi, unica forza in campo che – mi pare non ci siano più dubbi – ha un solo vero avversario: se stesso. Durerà vent’anni, sicuro, è un leader che fa il leader, ma bisogna anche vedere come lo fa. Non è Frank Underwood, anche se a qualcuno piace descriverlo così. E “House of Cards” è a Washington non a Pontassieve. E quel gruppetto di toscani io non ce lo vedo al Round Robin Bar del Willard Hotel. Storytelling? La Coca-Cola vi ha dato alla testa. E poi c’è una realtà di cui prendere nota sul taccuino: il tasso di consumo dei leader aumenta a livello esponenziale, l’intensità con cui vengono giudicati – e rottamati – si è alzata. E siamo latini, particolare che si tende a mettere in soffitta. Altra cosa rispetto al Regno Unito. Siamo più parenti degli spagnoli che degli inglesi, ficcatevelo in testa. Entrate in un club di Londra, vedrete la differenza. Cameron ha vinto con un programma di austerità. In Italia avrebbe perso. Podemos a Londra non c’è. Ukip è fuori da Westminster. E i nazionalisti scozzesi non sono la Lega di Salvini. Che fare? Quando tutti dicono di aver vinto qualcosa, significa che le lancette dell’orologio sono tornate indietro. La rivoluzione si fa, poi si twitta.
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