Conservatori spiazzati dall’idea renziana di “sindacato unico”
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I contratti in più ad aprile non fanno primavera. Sindacati territoriali e aziendali, l’unica via contro il neocorporativismo
di Francesco Forte | 26 Maggio 2015 ore 10:50 Foglio
Il presidente del Consiglio, osservando che ci sono troppi sindacati in Italia e che sarebbe auspicabile averne uno solo, ha sollevato, sia pure in un modo paradossale, un importante interrogativo che si divide in due quesiti.
Il primo è: perché a differenza che in Germania e nel Regno Unito, dove c’è una sola sigla sindacale nazionale, da noi ce ne sono una decina? Rispondo che il sindacato nazionale nasce come sindacato legato a un partito e, pertanto, ove ci sono solo due o tre partiti, di cui uno solo di sinistra, e una sola concezione del ruolo del lavoro e dei lavoratori nell’economia e nella società, come tradizionalmente nel Regno Unito con i laburisti, non ci può essere che un unico sindacato nazionale. Invece in Italia tradizionalmente, di partiti, dal novecento in poi, ce ne furono molteplici. Di conseguenza vi sono state diverse concezioni del ruolo dei lavoratori nella società – da quelle marxiste, a quella soreliana, a quella laburista, a quelle genuinamente cattolica, a quella corporativa, tutte connesse a diversi movimenti politici fino ai sindacati gialli anti partitici. Con il tramonto del sindacato legato a un partito e alla sua ideologia, e con il declino dei partiti ideologici, potrebbe sembrare che serva un unico sindacato nazionale che si occupa solo dei problemi dei lavoratori e “non fa politica partitica” come adombrato da Renzi. Che, dopo tutto, troppi torti non ne ha, visto che ha assunto come esperti di lavoro e delle pensioni degli economisti bocconiani, che nel loro razionalismo predicano il contratto di lavoro unico, sia pure al suo interno differenziato, l’ente previdenziale unico, anch’esso al suo interno differenziato, con un solo sistema pensionistico, modulato su due gambe, una pubblica a ripartizione su base contributiva e una (semi) privata integrativa a capitalizzazione.
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A questo punto sorge il secondo quesito, che Renzi non ha posto, ma che si pone di fronte alla tesi da lui avanzata. A cosa serve mai un unico sindacato nazionale? La risposta è che il sindacato nazionale unitario serve solo per il modello neocorporativo che dà luogo alla concertazione fra rappresentanza unitaria dei datori di lavoro, governo nazionale e sindacato. Ma questo monopolio del mercato del lavoro lo ingessa e lo lega politicamente. Tolto il governo, resta – nuda e cruda – l’intesa monopolistica fra sindacato nazionale e Confindustria. Altra soluzione negativa. Ma al livello nazionale, tranne che nella teoria marxista-leninista, non c’è un unico interesse dei lavoratori privati e pubblici uniti fra loro contro i datori di lavoro. Inoltre ci sono contrasti e conflitti di interesse anche fra i settori di mercato o quasi mercato. Fra lavoratori dei trasporti e lavoratori vivono nelle aree metropolitane, fra lavoratori della distribuzione e dell’industria. Gli stessi sindacati di settore sono sempre meno rappresentativi perché non ci sono più i settori ma le filiere e i distretti e realtà aziendali diverse. Da ciò consegue che occorre passare a sindacati territoriali e aziendali, per valorizzare la contrattazione d’azienda e di gruppo e la produttività. In effetti, in Germania, dai sindacati settoriali che fanno contratti diversi nelle diverse regioni si è passati ai contratti aziendali. Ma adottando questo modello, ne risentono (in termini di potere d’interdizione perso) sia le attuali segreterie generali sindacali sia i vertici confindustriali. Ecco perché scalpitano a ogni ipotesi di “rimescolamento” in chiave modernizzante. Loro che invece dovrebbero cimentarsi con la creazione di posti di lavoro. Perché nemmeno i dati positivi di ieri – un saldo positivo di 210 mila attivazioni di contratti in aprile, e un saldo positivo soprattutto per le attivazioni di contratti a tempo indeterminato – sono sufficienti ad abbassare il tasso di disoccupazione.
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