Expo, con l'Isis al posto di Agnoletto può essere peggio del G8

L’Expo 2015 di Milano sarà il bis del G8 di Genova del 2001? Molti lo temono e prevedono un assalto in grande dai No global italiani ed europei. Con esiti catastrofici, molto peggiori di quelli visti quattordici anni fa, nella città ligure. Ma che cosa avvenne a Genova pochi lo ricordano.

Se ne riparla adesso perché l’editto della Corte europea sulle torture inflitte dalla polizia nella scuola Diaz, e poi nella caserma di Bolzaneto, sui dimostranti fermati hanno prodotto rievocazioni spesso imprecise dei giorni di guerriglia ingaggiata da migliaia di giovani ribelli arrivati da mezza Europa. Il Bestiario pensa che quell’evento possa essere compreso meglio ricordando le figure, fra il tragico e il comico, di tre protagonisti.

Si deve partire da Vittorio Emanuele Agnoletto, 43 anni allora, milanese, medico del lavoro, molto legato a Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione comunista. In queste sere è ricomparso in qualche telegiornale per dire la sua a proposito delle torture alla Diaz. Da signore avviato alla sessantina, non ha per niente sofferto il passare degli anni. E’ sempre un omino asciutto, il volto scarno, lo sguardo febbrile e la vocetta stridula.

Nel 2004, dopo Genova, Bertinotti lo fece eleggere al Parlamento europeo. Era il giusto riconoscimento per le sue doti di portavoce del Genova social forum, l’armata pronta a dare l’assalto alla Spectre delle potenze mondiali, raccolte nel G8. Chi lo aveva eletto portavoce? Confesso di non saperlo. Tuttavia le sue doti stavano sotto gli occhi di tutti. Un fondamentalismo rosso senza argini. Un assoluto cinismo tattico. La formidabile abilità mediatica di spacciare il falso come se fosse il vero.

A Genova mister Agnoletto le mise in luce tutte. Spiegò ai ragazzi del Social Forum che l’assalto al G8 avrebbe spazzato via la piovra del liberismo.Quando l’irruzione della polizia nella scuola Diaz non c’era ancora stata, fu il primo a gridare che l’Italia assomigliava al Cile del generale Pinochet. Rifiutò di sospendere il corteo di sabato 21 luglio, mandando al disastro migliaia di giovani. Addirittura «trecentomila» secondo Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista.

Dopo la sconfitta, Agnoletto gridò: «Abbiamo vinto!». Il lunedì 23 luglio diffuse una menzogna irresponsabile: «A Genova ci sono quattrocento ragazzi dispersi, di cui non si sa più nulla». Il martedì 24 scrisse sul Manifesto un proclama esultante: «Siamo la vera opposizione sociale al governo delle destre». Poi elencò gli sconfitti. L’Ulivo, «fragile e ambiguo». I Ds, «in una situazione di assoluta impasse». E il capitalismo internazionale.

Il secondo protagonista della battaglia contro il G8 fu un giovanotto più comico che tragico: Luca Casarini, padovano, il capo delle Tute bianche. Oggi vive in Sicilia e compare alla tivù sulla Rete Due a «Virus», il talk show di Nicola Porro. Nel 2001 era un Capitan Fracassa, incurante del ridicolo. È indimenticabile la cronaca della sua vestizione prima dello scontro, scritta sulla Stampa da Aldo Cazzullo con perfidia distruttiva.

Attorno al Casarini, c’erano ben quattro scudieri: Meco, Pino, Piero e Marco. Il loro compito era di aiutare il capo a scegliere la corazza adatta al combattimento. Il Casarini optò per l’armatura che aveva indossato nella battaglia contro l’Ocse a Bologna e contro il neonazista austriaco Haider a Jesolo. Così bardato, andò incontro a una catastrofe.

Prima dei cortei, giurò con solennità: «Non toccheremo la città. Non ci sarà un vetro rotto, né un cassonetto rovesciato». Respinto dalla zona protetta che tentava di varcare, ripiegò sul bluff. Mostrò in tivù i bossoli dei colpi sparati dalla polizia. Insieme alle foto dei carabinieri travestiti da tute nere. Purtroppo per lui, Casarini venne smentito dalla portavoce delle tute bianche. Era una bella ragazza, Chiara Cassurino. Concionando al Tg5, confermò che le tute nere, i Black Bloc, esistevano. Erano il prodotto dell’esclusione sociale causata dal mostro della globalizzazione.

Genova fu anche l’occasione per un diluvio di parole, urlate per strada, offerte alle tivù e alle radio, stampate sui giornali. Ma nessuno ci spiegò perché un ragazzo di Genova, Carlo Giuliani, insieme a una marea di giovani stesse andando all’assalto di un gippone della Benemerita in piazza Alimonda. Con il volto celato da un passamontagna e un estintore in pugno. Sul Land Rover c’erano tre carabinieri che rischiavano di morire linciati. Uno di loro, Mario Placanica, anche lui giovanissimo, sparò con la rivoltella e uccise Giuliani.

Carlo divenne un’icona intoccabile. E dopo la morte il suo nome fu usato un’infinità di volte per confermare il carattere rivoluzionario del movimento di Genova.

Mi limito a citare quel che disse subito il capo dei giovani di Rifondazione comunista, Peppe De Cristofaro: «Il movimento è un pugno nello stomaco dell’organizzazione capitalistica. Ha una rete diffusa in molte città. Grazie ai Centri sociali e a tanti gruppi affini».

Il terzo protagonista della battaglia di Genova, accomodato dietro il sipario, fu il leader rifondarolo Bertinotti. Guidava un partito che stava invecchiando e perdeva voti elezione dopo elezione. Sperava di ormonizzarsi e ringiovanire con il movimento rappresentato da Agnoletto: «le piazze antiglobali» e «le moltitudini disubbidienti».

Il compagno Fausto spiegò: «Le uniche che possono interloquire con questo nuovo fatto gigantesco sono le forze della sinistra alternativa: Rifondazione comunista». Oggi sappiamo come è andata a finire. Il Parolaio rosso non conta più nulla. Ci ricordiamo di lui soltanto quando viene fotografato a qualche party romano, insieme alla signora.

Adesso siamo di fronte a una nuova prova. I gruppi pronti a scassare tutto si sono moltiplicati. Abbiamo i No Tav, gli anarchici, gli antagonisti violenti, gli insurrezionalisti, quelli che occupano le università, i clandestini nostrani, senza nome e pronti a sparare. A contrastarli c’è un governo che, al di là delle parole, sembra indeciso a tutto. Matteo Renzi non ama le prove di forza, se non quelle clientelari ed elettorali. Ma sul suo cammino c’è una grande rogna: l’Expo di Milano.

A Palazzo Chigi spiegano che l’allerta è massima. E la situazione eccezionale. Le crisi si stanno sommando: quella economica e sociale, il terrorismo internazionale, le minacce del Califfato nero. Il Centro analisi strategiche antiterrorismo è riunito in permanenza. Saranno installati centosessantadue tornelli e più di cento metal detector di nuova generazione. E verranno schierati duemila uomini, tra forze dell’ordine e militari.

Giuseppe Sala, il commissario unico dell’Expo, si affanna a spiegare: «Venire qui non sarà pericoloso. Questo è un evento che non è mai stato oggetto di azioni terroristiche. Non diffondiamo una psicosi. È vero che una delle società che controllano gli accessi al tribunale di Milano è tra quelle che hanno vinto la nostra gara. Però l’omicida è entrato da un ingresso non controllato da loro. Agli ingressi di Expo tutti passeranno sotto i metal detector».

Tuttavia l’imponderabile può accadere quando meno te lo aspetti. Il mondo diventa sempre più piccolo. E più crudele. L’unico augurio che possiamo farci è che la Genova del G8, al confronto con l’Expo, non ci appaia un raduno di dilettanti della violenza. Dove c’è scappato un solo morto.

Un ragazzo che tutti dobbiamo piangere.

di Giampaolo Pansa, Libero 13.4.2015

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata