Una telefonata allunga la vita, forse, però manda in galera
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Breviario telefonico per intercettati, fra ingenuità, sbruffonate e coglionerie a favore di procura
di Stefano Di Michele | 07 Aprile 2015 ore 06:18 Foglio
Sempre senza una regola, sempre senza una cautela, sempre senza orario. La lingua corre veloce, l’orecchio si tende attento. Nessuno sta zitto abbastanza. Così, se proprio non si riesce a praticare maggiore accortezza, conviene almeno (ri)mettersi nella mani della cara Contessa Clara: “Piccolo breviario telefonico: mai prima delle nove del mattino, mai tra mezzogiorno e le due, mai dopo le nove di sera” (“Il galateo moderno”, ed. 1967) – almeno da circoscrivere a qualche ora soltanto sia il perimetro delle intercettazioni, sia soprattutto quello delle cazzate. Soprattutto, non ci sono più le belle certezze di una volta. La benemerita Sip, negli anni Settanta, invogliava persino alla chiacchiera: “Il telefono, la tua voce” – e le orecchie altrui, adesso. La stessa Sip, negli anni Novanta, al vacuo chiacchiericcio associava addirittura effetti salutisti: “Una telefonata allunga la vita” – e la sputtana, a volte. Dicono le cronache, e certificano le sbobinature, che il telefono scotta – e che quotidianamente “Il terrore corre sul filo”, come in quel fenomenale thriller (1948) con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster, non ancora affinato Gattopardo viscontiano.
Periglio massimo, vanteria sempre operosa, così ogni cosa non taciuta rischia di mutarsi in cosa risaputa – persino “La voix humaine” di Cocteau adesso chissà se sarebbe al sicuro, e il memorabile monologo della febbrile femmina al telefono (“Pronto… Pronto… Pronto”. “Ti amo!” – mirabile la Magnani spettinata e in lacrime sul letto, tra scialletti e ombre, avvolta nel filo dell’apparecchio) già domani potrebbe finire tra gli artigli della pubblica voracità. E’ la tua voce che ti accorcia la vita, altroché, piuttosto che allungarla. Le pagine dei giornali, che di sbobinature son ripiene – come tristi farciti tacchini natalizi, come maritozzi alla panna – dicono tutto, ma chissà il molto che fraintendono: ché il tono è altro dallo scritto, la cazzata è quasi obbligo sociale, la sbruffonata per tutti costante. Così che pure la paciosa Sora Cecioni (intesa Franca Valeri) al telefono con mammà potrebbe passare i guai suoi: “Pronto mammà? Che la camomilla è un barbiturico? No, perché siccome che me serviva che me dormissero i pupi j’ho fatto… mica j’ho fatto una tazzina da beve, j’ho fatto il purè…” – e che qualcuno possa accorrere a chiedere conto del losco e brusco comportamento con gli infanti di casa. Le meglio ambizioni e i meglio traffici e le meglio coglionate – insaccati nelle bobine, salsicce fumanti alla griglia per il giorno appresso – colano unto e producono risentimento, che pare quasi di stare dentro un giallo di James Ellroy (come nell’ultimo, “Perfidia”, Los Angeles 1941), dove tutti registrano tutti e ognuno risente le chiacchiere di ognuno e tutti nascondono e tutti sanno.
“Ho schiacciato la levetta, andando avanti veloce per il resto della conversazione. Il congegno è notevole. Un nastro sottile passa tra due bobine, su una macchina delle dimensioni di un piccolo fonografo. Delle levette spingono il nastro avanti e indietro. Io indosso le cuffie per contenere i rumori ambientali…”.
Urge allora, per telefonisti incalliti e balordi del sottobosco e cazzari dalla lingua rapida, sulle orme della sempre solida Contessa Clara, aggiornato ritocco al suo vecchio breviario. Regola uno: stare zitti (“L’arte di tacere”, dell’Abate Dinouart, e siamo ancora al Settecento). Regola due: se proprio la favella urge, evitare certe parole, ormai in grado di alleprare ogni ascoltatore nell’ombra (segue apposito elenco).
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APPALTO. Si capisce che solo pronunciare la parola – direbbero nei ministeri romani – è come mettere il gatto a guardia della trippa: la zampata arriva comunque. Si potrebbe virare su espressioni meno consuete, contratto o concessione, ma si capisce che nessuno si farebbe confondere o impressionare. Un latinista si trova dappertutto, e allora “do ut des” potrebbe sembrare la soluzione (fonte La Trippa/Totò: “Do ut des, ossia tu dai tre voti a me, che io do tre appalti a te”) – ma un latinista, magari cinematografaro, si trova pure tra i marescialli in ascolto. Sconsigliato l’azzardo linguistico. Se proprio non si può fare decentemente l’appalto, seguire Ennio Flaiano, che sul vizio e la putredine della vita politica romana si attardò con ostentato furore. “Vien voglia di andarsene, ma dove?”, si domandava angosciato. E sospirava: “Ah, potersi ritirare in campagna, soli, con un chilo di cocaina, lontani da queste sozzure”. Sennò, e meglio: taglieggiare meno.
AUGURI. Con parsimonia – ché il povero generale che li ha fatti a Renzi deve stare ogni giorno a spiegarli e a giustificarli. A parte la zia di Massa Marittima e il consuocero di Follonica, non spingersi mai più a nord della Maremma con i convenevoli (lassù c’è Firenze).
BANCA. “Abbiamo una banca” – e bene sa il povero e onesto Fassino cosa passò. Parola da evitare assolutamente. Oddio, cassa va ancora peggio. Meglio evocare la “Numero Uno” di Paperone, se proprio c’è necessità. Più ancora, i dinosauri: chi ascolta potrebbe essere distratto dal ruggito del Tyrannosaurus Rex – però, anvédi, l’on. è un estimatore di “Jurassic Park”! – mentre in realtà il riferimento è a Bill Gates, che appunto la banca alla bestia in estinzione paragonò. Evitare colti riferimenti brechtiani al fondare o al rapinare la stessa: sottile sarebbe l’allusione, ma sempre continuerebbe a persistere la possibilità di ritrovarsi nelle pagine di cronaca (nera: o tangente o rapina).
CERTOSA. Vi è ultimamente tornato il Cav. Perciò, mai alludere al telefono a possibili ospitalità ricevute in passato. Nel caso, negare con decisione, mostrandosi piuttosto fervidi ammiratori dell’opera di Stendhal: parlavo di quella di Parma, mica della Costa Smeralda! Sinonimo possibile: certosino. Così da confondere tutto o col gatto o con lo stracchino.
COOP. Per carità, nelle conversazioni mai andare oltre i pregi del banco frigo. Ottima l’idea, qualche anno fa, di cambiare slogan: “La coop sei tu, chi può darti di più?”.
FIGLI. Da bastone della vecchiaia a bastonata (politica) della mezza età. Far sempre mostra di affidamento sulla saggezza biblica dei proverbi: “Chi risparmia il bastone odia suo figlio”. Saggezza e durezza. Ideale se il virgulto è in giro per l’Erasmus.
LIBRO. I libri dei politici, di solito, sono come il barattolo di bicarbonato in cucina – sembra niente, ma viene buono per tutto (“un aiuto per ogni occasione”), dalla digestione alle verdure. Tenerne qualcuno in casa, perciò, è buona cosa. Parlarne al telefono è invece pessima idea. Perfetto, in necessità, per non destare attenzione, il termine manufatto: siccome nessuno degli scriventi è onestamente Thomas Mann, nessuno potrebbe ritenersi eccessivamente penalizzato.
LOTTI. All’uopo, soccorre la presenza del cugino geometra che possa argomentare su come l’interesse sia di tipo ortofrutticolo piuttosto che sottosegretariale: solo curiosità per dei lotti di terreno. Non edificabili, però.
MERDA. Mettere la mani nella stessa. Materiale da maneggiare con grande cautela – sia al telefono, sia nella pratica. Quasi illimitati i sinonimi: popò, pupù… “Forse forse forse / è la mia cacca!” – come dalla felicissima “Canzone della cacca”. Alludere a Benigni – “Inno del corpo sciolto”. Se si è cooperatori di sinistra, la stessa legare a possibili strategie rivoluzionarie: “Quando la merda avrà valore i poveri nasceranno senza culo”. Così, si potrà sempre sostenere che si parlava della Lunga Marcia. Per maggiore credibilità, si segnala l’esigenza di un doppiovelo rotolone a portata di mano.
METANIZZAZIONE. Al telefono, evidenziare i pregi del fornello a gas Pibigas che si possiede dagli anni Cinquanta. Risolutiva una citazione dell’apposito Carosello: “Poi la timida stufetta / si riscalda in tutta fretta!”.
NIPOTE. Nel caso si fosse monsignore, come per i figli (vedere sopra).
PALAZZO CHIGI. Sia che si entri dalla porta principale, sia che si passi per quella secondaria, alla cornetta mai farne cenno. Alludere, al più. Per dire, Palazzo Vecchio evoca il Fiorentino Residente, ma la giovane età sottrae a possibili immediati abbinamenti: era vecchio, già rottamato! Ammettere di averlo visto solo al tigì. Chiedere se è per caso una multiproprietà a Santa Teresa di Gallura (nel caso, fingersi interessati).
PATONZA (memorabilia). Che giri o che stia ferma, voi immobili al posto vostro. E se la stessa era in movimento, farsi provvedere di apposito certificato che attesti vostro febbrone in data di simile perigliosa circolazione. Al telefono, chiedere costo di scatola di Baci Perugina per la legittima consorte.
SARTO. Nelle conversazioni, buttarsi verso i Magazzini Mas. Proclamarsi pubblicamente nostalgici della Standa. Mai far uscire dall’asola l’ultimo bottone della manica. Negare, ove possibile, la stessa conoscenza dell’esistenza di ago e filo. Camicia in terital, color beige. Alla domanda: ma lei parlava del sarto?, evocare con forza la propria devozione nei confronti di san Pio X (cardinale Giuseppe Sarto). Negare con decisione ogni rapporto con la parola imbastitura.
ROLEX. Sia mai! Al telefono, far sempre notare che sono ormai anni che, quando volete sapere che ora è, passate sempre presso la basilica di Santa Maria degli Angeli a scrutare la bellissima meridiana al suo interno. O che vi inerpicate fin sul Pincio per informarvi dall’idrocronometro realizzato da padre Embriaco nel 1867. Ecco – in necessità, tralasciare la parola Rolex e puntare su idrocronometro. Al massimo, ostentare lo Swatch (al telefono: mai sgarra di un secondo!). I negozi di cinesi, peraltro, possono fornirvi di orologi a euro 7,90. Resta sempre la possibilità della sveglia al collo.
VINO. In vino veritas, ma pure in intercettazioni. Lasciare stare la vigna, ché come dicono i saggi popolari “chi tiene la vigna tiene la tigna” – se non per evocarsi tra i filari come Benedetto XVI: “Semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”. Poi, se qualcuno vuole sapere chi è il Signore in questione, quello non è tipo da farsi facilmente impressionare. Al massimo, con spensierata letizia, limitarsi ad accennare al telefono con l’interlocutore il felice canto: “Oh com’è bella l’uva fogarina / oh com’è bello saperla vendemmiar…”. Sennò, peste vi colga! La meglio cosa, quella risolutiva, sarebbe ripiegare sul chinotto (o l’acqua, se si desidera pure leggermente gassata).