Agenti provocatori e tic paranoici, così l’anticorruzione diventa Inquisizione
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Mercoledì scorso, nell’aula del Senato, intorno a mezzodì, un brivido ha percorso molte auguste schiene
di Luigi Manconi | 05 Aprile 2015 ore 06:06
Mercoledì scorso, nell’aula del Senato, intorno a mezzodì, un brivido ha percorso molte auguste schiene. E’ stato quando ha fatto irruzione rumorosamente la formula “agente provocatore”. Non era la riproposizione, esausta se non folklorica, di un classico della feroce rissosità terzinternazionalista: “Taci, nemico del popolo!”, “Taci tu, agente provocatore!”. Niente di ciò. Più prosaicamente, l’evocazione di una figura investigativa destinata, nelle intenzioni, a sconfiggere la malapianta della corruzione. E, infatti, presentando questa misura, il proponente (va da sé: un parlamentare di Cinque Stelle), per renderla più bonaria e appetibile, faceva riferimento ai “telefilm americani”. Così che, alle mie spalle, una senatrice – beata innocenza – esclamava: “Ah, come Starsky & Hutch!”. Altro momento indimenticabile è stato quando il senatore grillino ha spiegato che l’introduzione dell’agente provocatore sarebbe “un deterrente potentissimo almeno nel 70 per cento dei casi. Forse non sarà il 70; sarà addirittura il 90 o forse il 50 per cento, non importa”. In questo “non importa” c’è tutto un mondo e una metafisica. E stiamo parlando, sia chiaro, di un parlamentare dotato di una qualche cultura: eppure non gli è sembrato né irresistibilmente comico né drammaticamente sciagurato evocare un effetto di deterrenza, in termini che pretendeva scientifici, misurandolo con quella spirale sgangherata di cifre.
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L’emendamento è stato bocciato, ma poco prima il governo aveva accolto “come raccomandazione” un altro emendamento trasformato in ordine del giorno, proposto dai grillini, che chiedeva all’esecutivo di estendere le operazioni “sotto copertura” anche alla Pubblica amministrazione, contro i reati di concussione e corruzione. Siamo, palesemente, in una dimensione oscillante tra pochade e incubo, tra Policarpo dei tappeti e Serpico al catasto. Tra Maurizio Merli e Capitano Ultimo. Provate a immaginare gli agenti sotto copertura e tanto più gli agenti provocatori furtivamente infiltrati in un ufficio pubblico, all’interno di una circoscrizione municipale, o nella sede dell’azienda tramviaria. A quarant’anni dall’inizio dell’epopea fantozziana, si aprono scenari sconfinati per la fantasia dei cantori dell’ufficio come universo di senso e dei grandi burocrati come eroi eponimi. Intorno a essi, secondo il M5s, dovrebbero aggirarsi gli agenti provocatori, pronti a tendere tranelli, a istigare al reato, a incitare al malaffare. Ecco, questo è il punto, che rimanda non solo a una controversia giuridica, ma anche a una significativa questione culturale. L’agente provocatore, figura sempre problematica sotto il profilo costituzionale e legale, pur quando utilizzato per indagini straordinarie (narcotraffico, terrorismo, mafie), appare comicamente fuori luogo e fuori misura se applicato all’ambito della Pa. Qui l’agente provocatore può essere previsto solo da chi coltiva una rappresentazione nichilista e catastrofista della società nazionale, frutto di uno sguardo allucinato e torvo. Per capirci, lo stesso sguardo che suggeriva quel titolo scellerato del Fatto quotidiano (“Italia a delinquere”) e quella visione cupa delle relazioni sociali, totalmente dominate dal crimine piccolo e grande. Nelle parole dei parlamentari di Cinque Stelle c’è sempre l’“Italia a delinquere”: una concezione disperata, senza respiro e senza salvezza, dove la macchina criminale viene a tal punto enfatizzata da trasformarsi fatalmente in un blocco della vita sociale che non consente alcuna possibilità di emancipazione.
Siamo persino oltre la logora contrapposizione buoni/cattivi: i buoni probabilmente non ci sono più dal momento che quelli che ieri erano esemplarmente buoni ci mettono un attimo a diventare cattivissimi (lo sanno bene quanti dal Movimento Cinque Stelle sono usciti e quanti non ne escono per le medesime ragioni). Ma non si tratta solo di questo: se si considerano i vari linguaggi utilizzati in questa visione paranoide, si scoprirà agevolmente che l'agente provocatore – anche nella sua definizione teorica – è colui che induce in tentazione. Dunque, non colui che scopre il male, bensì colui che incita a commetterlo, contando sulla debolezza della carne del soggetto istigato. Come non vedere che, in un simile contesto, l’attività giudiziaria è destinata ad assumere tonalità e dispositivi propri della macchina dell’Inquisizione?