L’egemonia al tempo dei monelli
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Renzi, l’epoca conclusa dei sognatori e la meccanica di una nuova presa di potere spiegata da chi l’ha vista da vicino (Da Empoli).
Perché nell’èra dell’iper-politica gli intellettuali sono trattati come corpi intermedi
di Stefano Di Michele | 02 Aprile 2015 ore 06:15
A Matera, piuttosto che a Venezia. Come sorelle cechoviane “A Matera! A Matera!”, là dove i Sassi risorgono a nuova vita, hanno da buttare cuore e mente i trenta-quarant’anni, bamboccioni a fine letargo, che all’irrompere sulla scena, alla “prova del potere”, si sottopongono. Non a Venezia – ché a Venezia se vuoi un sushi non c’è, e anzi è totale la prevalenza del gondoliere e delle gondole – “che non vanno più da nessuna parte. Seguono un percorso, sempre lo stesso. Dura mezz’ora, costa ottanta euro e finisce sempre esattamente nel punto in cui ha avuto inizio”. A Matera, dunque – ché se Cristo per caso ancora s’attarda nei pressi di Eboli, “una nuova generazione alla guida di un vecchissimo paese” già più a sud è arrivata, con Renzi che – col fervore di un Matteo Magno – cavalca alla testa di questo esercito che pareva di terracotta e che di colpo ha preso fiato e gambe. L’avverarsi, si scolpisce, della profezia biblica di Isaia di fronte al disordine di Gerusalemme: “Io metterò come loro capi ragazzi, monelli li domineranno”. Dopo il “paese dei balocchi” a marchio Berlusconi, e il “paese normale” timbrato D’Alema, è l’ora del “paese dei monelli” che come lava fuoriescono da camerette ancora associate allo stesso corridoio di mamma e papà. “La prova del potere” (Mondadori) è perciò il titolo appropriato del saggio scritto da Giuliano da Empoli: per calare definitiva lapide sull’antico reame dei “non-dirigenti”, dei “non-responsabili”, che si è disfatto nel volgere di pochi mesi e faticosamente si va resettando attorno al filibustiere fiorentino – che a ferro e fuoco le antiche contrade politiche ha messo.
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Una parola, per Da Empoli, spiega con migliore esattezza quello che sta avvenendo. Ed è l’ultima parola che potrebbe venire in mente: inattualità. E proprio la storia di Renzi la spiega, “ha fondato la sua ascesa sull’inattualità, oltre che sulla trasgressione” – non antipolitico, perciò, ma iperpolitico. Renzi che fa la sua tesi su Giorgio La Pira, che va sulla tomba del santo predecessore appena eletto sindaco, e che soprattutto “dopo un ventennio di demonizzazione della casta e di celebrazione della ‘società civile’, impone un governo di giovani professionisti della politica per restaurare, passo dopo passo, il primato del volontarismo sulla tecnica”. E ancora: “L’Italia è piena di consulenti aziendali e di enfants prodiges della finanza convinti che la loro padronanza delle presentazioni in Power Point dia loro diritto divino di governare il paese. La riuscita di Renzi si fonda su ingredienti più tradizionali. La capacità di aggregare il consenso, di manovrare un’assemblea, di conquistare un uditorio. Una cultura politica di vecchio stampo, formatasi nei consigli d’istituto, nelle riunioni di partito e nei comizi di piazza”.
Insomma, fa Renzi tutte cose (a parte i tuìt) che prima del Sessantotto si facevano – e che i sessantottini ingrigiti di colpo, a caccia perenne dell’imprendibile perfezione, non hanno mai fatto (e adesso non sanno più fare): partiti maoisti, finiti taoisti. “E’ il complesso del principe Andrej”, scrive Da Empoli. Così che quando cita la famosa scena di “Guerra e Pace” dove il principe va a trovare il ministro della Guerra, per consegnargli la sua perfetta ideale riforma del codice militare, frutto di meditazione di anni, si capisce che dalla parte del pragmatico ministro, piuttosto che del principe sognatore, l’autore si mette: “Lei propone nuove leggi militari? Ma ci sono già molte leggi militari, e nessuno per applicarle. Al giorno d’oggi tutti progettano leggi: è più facile scrivere che agire”. Come per le perenni infelici riforme nostre. I vecchi nel vuoto dondolano, i nuovi arrivati si sistemano (felicissima metafora) come sul quarto lato vuoto del monumento a Nelson di Trafalgar Square: basamento storico, però usato per opere moderne. Libro curioso, ragionato elogio ai barbari calati al galoppo e vincenti (si cita Alessandro Baricco, perfetto sarebbe stato magari Kavafis: “Era una soluzione, quella gente”). Chissà che uso dell’elaborato farà il capo dei barbari salvifici. Poco, forse: dopo aver istruito sulla “disintermediazione dei corpi intermedi”, figurarsi quella degli intellettuali. Così, a pag. 47, preso da ragionamenti gramsciani, Da Empoli tira il colpo di grazia: “Bisogna riconoscere che il modo più sicuro di non conquistare l’egemonia, oggi, è proprio quello di circondarsi di intellettuali, fondazioni e riviste”. Il Barbaro fa da solo – si basta. Bye bye eterni studiosi di perfette soluzioni. Da Empoli a Firenze, lo stesso un divertente e istruttivo giro (forse in gondola?). Però, almeno questo.