La nuova domanda della politica spiegata da Uber

Innovazione e corpi intermedi. Perché l’economia di mercato si rivoluziona solo con grandi spallate

di Claudio Cerasa | 31 Marzo 2015 ore 20:08 Foglio

Dallo scontro tra Uber e i tassisti allo scontro tra Renzi e i sindacati, in economia così come in politica, il problema è tutto lì: con che domanda dobbiamo fare i conti? Pensateci. C’è davvero una simmetria geometrica tra quello che sta succedendo in queste ore con Uber e i tassisti a Milano, tra scioperi, polemiche, insulti, minacce, ricorsi, aggressioni verbali, e quello che sta succedendo in politica tra i sindacati e Matteo Renzi, con le accuse di autoritarismo, le minacce di scissioni, le aggressioni culturali e gli scioperi minacciati per far ragionare il dittatore di Palazzo Chigi. La storia di cui parliamo va avanti ormai da un anno e riguarda una società, Uber, figlia pura e genuina dell’èra della disintermediazione, stretta cugina di altri fenomeni maturati nell’epoca della disintegrazione del corpo intermedio, come Spotify, Airbnb, Twitter, Car2go, Enjoy, che, da angolazioni diverse, stanno contribuendo a riscrivere le coordinate di alcuni importanti tasselli del mercato. Il problema è tutto lì: con che domanda dobbiamo fare i conti? Partiamo da un fatto di cronaca e poi arriviamo al punto che ci interessa. Il fatto è questo. E’ successo che due giorni fa a Milano i campioni del trasporto pubblico locale hanno scelto di scioperare lasciando per strada migliaia di milanesi, ed è successo che Uber ha deciso di regalare una corsa gratis sulle proprie macchine a chiunque si fosse trovato in possesso di un biglietto del bus, del tram o della metro. Scandalo. Polemiche. Attacchi. Insulti. Accuse di fascismo. E incapacità sostanziale di capire cosa stia succedendo attorno al mondo Uber e in particolare attorno a un pezzo importante del tessuto italiano. Domanda e offerta.

ARTICOLI CORRELATI  Non solo tassisti incarogniti. Ecco perché per Uber le cose si fanno difficili a Bruxelles  Pure Renzi s’è inchinato ai tassisti. Tante buone ragioni per ripensarci Il meccanismo è sempre lo stesso ed è elementare. Stiamo al caso Uber. In Italia esiste una forte domanda di trasporto pubblico locale che non viene soddisfatta in modo adeguato. Vuoi perché i prezzi dei taxi sono alti (Roma è una delle città più care d’Europa), vuoi perché l’offerta attuale è insufficiente a rispondere alle esigenze dei clienti (in oltre il 40 per cento delle città italiane, dati Bankitalia, sono trascorsi più di vent’anni dall’ultima assegnazione di licenze), vuoi perché la media di taxi per abitante è molto bassa (uno ogni 480 abitanti). Vuoi per tutto questo vuoi per molto altro, Uber è la risposta naturale, anche se garibaldina, a una domanda non soddisfatta ed è una conseguenza naturale a un mercato che non funziona. Non è necessario dire che Uber sia il Bene supremo – perché non lo è, i limiti esistono, le regole sono importanti – ma non si può non capire che la nascita e la proliferazione di Uber (40 miliardi di dollari di fatturato in giro per il mondo) è l’effetto e non la causa di un sistema che non carbura più e per questo non può essere liquidato come un esperimento folcloristico solo per non turbare la coscienza del tassista collettivo. In economia, così come in politica, spesso sono dei fenomeni dirompenti, traumatici e se vogliamo di rottura, a imporre un nuovo ordine culturale e anche legale. Uber, semplicemente, riempie uno spazio che doveva essere riempito, così come Renzi e Grillo, tempo fa, hanno riempito uno spazio che nessuno aveva occupato nella politica. E per questo, chi considera il modello Uber un sistema che si spiega solo con le categorie del liberismo selvaggio compie lo stesso errore commesso tempo fa quando Marchionne, un altro che le regole le ha forzate, ma a fin di bene, fu considerato dai talebani della conservazione come un provocatore senza scrupoli che voleva solo distruggere i corpi intermedi e gli equilibri di sistema. Non è andata così, e la storia di Uber è l’altro lato della medaglia della necessaria rivoluzione culturale che occorre alla nostra economia.

Come notato qualche settimana fa da Derek Thompson sull’Atlantic, il punto vero da chiarire è se un soggetto come Uber crei valore dal nulla o se invece sia solo un vettore che distrugge lavoro. La prima risposta ci sembra quella giusta, se preso nel verso giusto l’effetto simbolico di Uber potrebbe aiutare a cambiare alcune coordinate della nostra economia di mercato, e proprio per questo ci sembra grave che il presidente del Consiglio non prenda posizione e non contribuisca a indicare una direzione sul tema cruciale e vitale della regolazione del trasporto pubblico locale. Poco meno di un anno fa, era il 22 maggio 2014, Renzi, durante un viaggio a New York, disse di aver utilizzato “Uber con un amico, di averlo trovato un servizio straordinario e di essere pronto, già dalla prossima settimana, ad affrontare anche questo”. Un anno dopo Renzi non ha fatto nulla di tutto questo. Di Uber non ha più parlato. Di liberalizzazioni si parla nel Ddl Concorrenza, ma in maniera soft. E, ormai da un anno, Renzi sembra aver dimenticato cosa significa fare qualcosa di concreto per promuovere la concorrenza. Pur sapendo perfettamente dei benefici che potrebbe trarne il suo governo. Dice l’Agcom: “Attuare le riforme strutturali volte a ridurre i costi di accesso per le imprese e ad aprire i mercati alla concorrenza può portare a un aumento potenziale del prodotto interno lordo italiano dello 0,3 per cento in cinque anni e dello 0,7 per cento in 10”. Dice il Fondo monetario internazionale: “Le riforme volte ad aumentare la concorrenza e la produttività nei mercati di beni e servizi potrebbero aumentare di oltre il 4 per cento in termini reali il prodotto interno lordo italiano in cinque anni e di oltre l’8 per cento a lungo termine”. Oggi, tu guarda il caso, Renzi è anche ministro delle Infrastrutture ad interim. Uber, e tutti i cugini di Uber, aspettano una legge che possa aiutare a sanare una situazione che oggettivamente va sanata. Volendo, si può fare. Volendo, si può riformare. Volendo, si può raddrizare un pezzo di mercato che non funziona. Volendo, si può dare un segnale di coraggio. Sempre che Renzi non abbia scelto di acquistare a poco prezzo il consenso dei tassisti – visto mai all’Expo possa esserci qualche disordine – decidendo almeno per il momento di non liberalizzare il settore. La storia di Uber, al netto delle esasperazioni come Uber Pop, non è solo la storia di un nuovo vettore che riempie un vuoto lasciato sguarnito da chi in tutti questi anni non è riuscito a soddisfare una domanda che c’era, ma è la storia di un pezzo di Italia che cerca risposte che spesso la politica e il mercato non riescono a dare. La conclusione del ragionamento è semplice: in Italia, in politica così come in economia, esiste una domanda che ancora non ha trovato una sua offerta e non capire che quella domanda corrisponde non solo a un pezzo di mercato ma anche a un pezzo di elettorato, oggi, sarebbe qualcosa di più di un semplice errore da matita blu. Chiaro, no?

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