La svolta a destra di Salvini. Errori e contraddizioni
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fatto ha dato vita ad un nuovo soggetto politico. Il passaggio dal federalismo al nazionalismo autarchico è una piroetta di quelle che non possono passare del tutto inosservate
di Gustavo Piga | 24 Febbraio 2015 ore 13:35 Foglio
Al direttore - E' ufficiale. Matteo Salvini ha mantenuto, per ora, il vecchio nome, Lega Nord, ma di fatto ha dato vita ad un nuovo soggetto politico. Gianfranco Miglio è stato messo in soffitta e al suo posto si sono imposti Marine Le Pen e Vladimir Putin. Il passaggio dal federalismo al nazionalismo autarchico è una piroetta di quelle che non possono passare del tutto inosservate, persino in un Paese ubriaco dall'overdose televisiva di politica interna. Proprio la lettura del manifesto economico del giovane leader del Carroccio pubblicato dal Foglio rende evidente la svolta a destra. I dieci punti snocciolati da Salvini non contengono numeri e assomigliano, troppo, ad una prima bozza di programma per la campagna elettorale (ma si vota presto?). Invocare meno tasse e meno disoccupazione è un esercizio sin troppo facile e difficilmente su questo si può polemizzare. Il piatto forte, e già ben sperimentato, è la critica alle istituzioni di Bruxelles.
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“Meno Europa” o “meno Europa austera e più Europa solidale”? Matteo Salvini sembra veramente sposare la prima opzione quando sostiene che sogna “un sistema dove nessuno debba pagare per altri e dove ognuno possa essere competitivo con le proprie forze”. Un modello senza assicurazione dunque, senza paracadute, dove in caso di difficoltà ogni Paese va per conto suo, alla disfatta: un modello molto diverso da quello ideale federale, come quello degli Stati Uniti, dove gli stati più ricchi trasferiscono risorse a quelli più in difficoltà, in nome di una solidarietà che si tramuta in unità d’intenti e dunque in forza geopolitica e negoziale. Salvini, proprio lui, sembra dimenticarlo ma “nanismo politico” e “nanismo economico” si sorreggono a vicenda, rafforzandosi e non si può pensare di superare l’uno senza eliminare l’altro.
Salvini argomenta come non vi sia una terza via se non quella perigliosa dell’uscita dall’euro, ma sa bene che non è così: i riequilibri delle partire correnti senza condannare l’Italia al dimenticatoio della liretta passa per una politica fiscale espansiva in tutta Europa, più abbondante in Germania e più cauta in Italia, ma sempre ben diversa da quell’attuale imposta dall’ottuso Fiscal Compact, austera senza se e senza ma. E’ paradossale che Salvini riconosca l’importanza delle politiche anticicliche per venire a sostegno dell’economia ma le leghi al recupero di una improbabile sovranità, quella monetaria, dato che comunque la politica della Bce in questo momento è massimamente espansiva e poco potrebbe fare di più una Banca d’Italia che stampasse per conto proprio banconote col tricolore. Ed ancora più contradditorio appare ricordare la conseguente enorme svalutazione dell’euro rispetto al franco svizzero, dimostrazione che lo strumento di cambio, anche se usato in abbondanza, poco può per restituire forza e vigore ad una economia, quella dell’Europa del Sud che ha bisogno disperato di maggiore domanda interna.
Certo Salvini comprende l’esigenza di spendere di più ma miracolosamente, dopo aver dichiarato che “la spesa (pubblica) italiana è largamente inefficiente” suggerisce di “creare fabbriche e coltivazioni di beni esclusivamente importati da paesi extra-UE” coprendone la realizzazione sottocosto, senza domandarsi come uno Stato inefficiente possa individuare i settori “giusti” in cui produrre. Nazionalismo, statalismo ed autarchia. Una triade concettuale che ricorda gli scritti del giovane socialista Mussolini. Poco convincente meno di un secolo fa, divertente oggi. Ci troveremmo a finanziare piantagioni di banani in Veneto, lasciando dunque i consumatori a mangiare banane di peggiore qualità allo stesso prezzo di prima ma con meno denaro in tasca a causa delle tasse per finanziare questo spreco?
E’ singolare come il partito che nacque per ribellarsi a Roma ladrona non spende un rigo per chiedere a gran voce quella revisione della spesa pubblica, basata su professionalizzazione e lotta alla corruzione nelle stazioni appaltanti, che sola può generare le risorse e le capacità per spendere bene e produttivamente come anche Matteo Salvini, a parole, desidererebbe.
In cambio, il (fu) leghista dice di prestare attenzione alle esigenze delle piccole imprese, implicita nella difesa delle banche popolari, e mostra di interessarsi ad un meccanismo pensionistico che aiuti i giovani a trovare più rapidamente lavoro. Un po' poco, francamente. Più che individuare ricette (gli slogan anche se declinati in molte righe restano sempre slogan), Salvini sottolinea le difficoltà e le paure di una società in crisi, anche d'identità. Fa specie in particolare una visione geopolitica che respinge sia la constatazione della globalizzazione sia la definizione di un valore quale l'interesse nazionale. Il no al Ttip, il trattato per il commercio internazionale fra Stati Uniti ed Europa, è paradigmatico e forse fra i punti meno banali dei dieci messi nero su bianco da Salvini. Il rigurgito antiamericano ed il più recente innamoramento dell'Orso russo spingono il movimento leghista in una posizione di assoluta retroguardia determinando la condizione di maggiore incompatibilità per un eventuale accordo di coalizione che possa aggregare una offerta di governo davvero alternativa al Pd renziano. La democrazia si fonda sul pluralismo delle idee e delle opinioni e certamente in questo senso Salvini è apprezzabile per il fatto che va ad occupare uno spazio politico comunque significativo, quello della destra storica (più Msi che An). I programmi economici invece si basano sui numeri e su quelli si discute. A incolpare l'Europa di tutti mali e chiedere una flat tax sono buoni tutti.
Gustavo Piga, direttore scientifico rivista Formiche