L'intervista. Il richiamo di Morando: “Caro Pd, che errore non votare sì alla separazione delle carriere”
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già viceministro dell’Economia, accusa il Partito democratico: “Avrebbe dovuto collaborare sulla riforma della giustizia, che fine ha fatto il riformismo?”
Aldo Torchiaro 24 Luglio 2025 alle 11:49. Ilriformista.it lettura4’
Incontriamo Enrico Morando, oggi presidente di Libertà Eguale, già parlamentare dal 1987 al 2018 e viceministro dell’Economia nel governo Renzi. In questa conversazione, Morando ripercorre le radici garantiste della sinistra sul tema giustizia, difende la separazione delle carriere e lancia un messaggio netto al Partito democratico: non si possono sacrificare princìpi per logiche di schieramento.
Morando, lei ha affermato con forza che il Partito democratico avrebbe dovuto votare la separazione delle carriere. Da dove nasce questa convinzione?
«Sì, diciamo che il punto di partenza in questo ragionamento è il lavoro che la sinistra riformista su questo tema ha sviluppato nel corso degli anni e che poi ha trovato, in particolare nelle posizioni di Libertà Eguale, un suo sviluppo coerente. Faccio riferimento ai precedenti nell’elaborazione del PCI e nel PDS».
Partiamo dal PCI. Come si schierò allora?
«In un primo tempo nel PCI si sviluppa una discussione che sembra alludere a una posizione contraria, ma poi, quando il referendum viene ammesso ed effettivamente bisogna decidere che cosa votare, si sviluppa un confronto tra i sostenitori dell’ipotesi del sì e del no che porta il PCI – sulla base di un lavoro guidato da Aldo Tortorella, che era il responsabile dei problemi istituzionali – a decidere di votare a favore. Il referendum si tiene ed è un grande successo perché il sì ottiene l’80,21% e il popolo chiede che si istituisca una qualche forma di responsabilità civile dei magistrati».
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Nel 1997, al congresso PDS, presentaste un emendamento sulla giustizia. Di cosa si trattava?
«Con Macaluso proponemmo di introdurre l’obbligo di motivare la mancata azione disciplinare verso i magistrati, come già accade per l’azione penale. Non passò, ma ebbe comunque un buon consenso».
Che ruolo ebbe Tangentopoli in questo percorso?
«Durante Tangentopoli si sviluppa una discussione interna molto accesa. Voglio ricordare in particolare Giovanni Pellegrino, giurista e senatore, che insisteva su un punto fondamentale: l’equilibrio tra i poteri. Diceva: dopo la crisi verticale della politica, si è aperto un vuoto riempito dai poteri di controllo – in primis la magistratura – che hanno iniziato ad esercitare una funzione di supplenza. Il sintomo più evidente? L’uso della categoria del consenso da parte dei magistrati, che non dovrebbero tenerne conto. Quando i poteri di controllo usano la logica del consenso, è segno di squilibrio. Pellegrino diceva: non servono bavagli alla magistratura, servono riforme. Ed è in questa scia che nel 1999 approviamo – assieme al centrodestra – l’articolo 111 della Costituzione, il principio del giusto processo».
E proprio a partire dall’articolo 111, lei sostiene che la separazione delle carriere diventa una necessità. Perché?
«Se il giudice deve essere terzo e imparziale, come può avere la stessa carriera del pm, che è una delle parti del processo? Si è tentata la distinzione delle funzioni, ma è insufficiente. La riforma recentemente approvata in prima lettura contiene uno strafalcione grillino – il sorteggio – che è una misura disperata e sbagliata. Ma sarebbe bastato dire: togliamo il sorteggio e votiamo insieme la separazione delle carriere, proprio come facemmo con l’articolo 111. Invece il centrodestra si è chiuso a riccio e il centrosinistra ha fatto l’errore opposto, dicendo no a tutto. Il Pd avrebbe dovuto fare una scelta razionale e dire: “Sulla separazione delle carriere ci siamo”. Invece ha rischiato di gettare via decenni di elaborazione riformista».
Chi teme che la separazione delle carriere metta a rischio l’autonomia del pm non ha torto?
«Questo è un argomento che non sta in piedi. La separazione delle carriere non implica affatto la subordinazione del pm all’esecutivo. Questo rischio va impedito con chiarezza, certo. Ma l’autonomia e l’indipendenza della magistratura giudicante e requirente si possono e si devono preservare anche dentro un sistema che prevede carriere separate. Anzi, è proprio il mancato riconoscimento di questa esigenza a creare una contraddizione con l’articolo 111».
A proposito di magistratura e politica: oggi ci sono diverse indagini che coinvolgono amministratori locali, da Ricci a Emiliano, fino a Sala. Come giudica questa situazione?
«Non voglio entrare nel merito di procedimenti specifici, ma sul caso Milano si può e si deve dire qualcosa. La magistratura deve accertare responsabilità penali su fatti concreti, non censurare scelte discrezionali della pubblica amministrazione o giudicare un’intera politica urbanistica. Quella è materia del dibattito pubblico, non dell’azione giudiziaria. Dario Di Vico in un recente articolo analizza lo sviluppo della città di Milano. Mette in luce successi importanti, ma anche uno squilibrio nel rapporto tra salari, profitti e rendita. Un tema reale, ma che va affrontato politicamente. Sala, che stimo, ha mostrato consapevolezza di questo squilibrio e ha tentato un riequilibrio sociale nel progetto del Pirellino, imponendo oneri per l’edilizia sociale. Il Tar ha dato ragione, ma il Consiglio di Stato ha annullato. Però quello era un intervento politico, non penale».
Quindi, secondo lei, è sbagliato collegare discontinuità politica e interventi giudiziari?
«Esattamente. Non si può dire: “Mi fido di Sala, però ci vuole discontinuità”. È quel “però” che non funziona. Se c’è bisogno di riequilibrare, si discute nel merito. Ma se la discontinuità diventa una reazione all’intervento della magistratura, è un errore. La magistratura non deve correggere la politica. La politica si corregge da sola, attraverso il confronto democratico».



Commenti
Guido Vitiello 25 lug 2025 ilfoglio-it
La sua conversione al garantismo apparirebbe meno sospettabile di opportunismo se raccontasse la sua vita anche prima di Damasco. Ad esempio quando, come racconta Paolo Cirino Pomicino, il suo ufficio a Montecitorio si era trasformato nel crocevia della gestione politica della magistratura
Siccome si fa tardi, c’è un’altra cosa che vorrei domandare a Luciano Violante, foss’anche nella penombra di un confessionale. Penso infatti che la sua conversione al garantismo apparirebbe più perfetta, più inequivocabile, meno esposta a sospetti di opportunismo, se il nostro vuotasse il sacco sulla sua vita prima di Damasco; se, in altre parole, invece di dispensarci buoni consigli raccontasse tutti i dettagli di quando dava il cattivo esempio. Non è una curiosità antiquaria, la mia, perché la forma attuale della nostra repubblica, questa baracca pericolante che pare sempre sul punto di crollare, è stata edificata precisamente sulle macerie lasciate dal terremoto giudiziario dei primi anni Novanta. E se il tetto scricchiola sulle nostre teste è anche per gli errori di progettazione compiuti in quel cantiere frettoloso, inesperto e ben poco lungimirante.
Due scene si associano enigmaticamente nella mia testa. La prima l’ha descritta Geronimo, ossia Paolo Cirino Pomicino, in una pagina di Strettamente riservato, il suo memoriale sulla fine della Prima repubblica: l’ufficio di Violante a Montecitorio trasformato nel crocevia della gestione politica della magistratura, con il piccolo Vysinskij che promette intercessioni, prospetta condizioni, largisce rassicurazioni ai parlamentari questuanti, purché facciano i bravi e non intralcino il cammino della rivoluzione giudiziaria.
Ecco, mi piacerebbe che Violante aiutasse a gettar luce su quella vecchia scena, sperando che un poco ne riverberi su un’altra scena, che è invece recentissima: lo studio di Giuseppe Conte elevato a ufficio del Gip, e l’avvocato del popolo che chiede al Pd (e subito ottiene) le carte della procura di Pesaro su Matteo Ricci, per valutare se è sufficientemente immacolato da meritarsi un’alleanza con i Cinque Stelle.
Le due situazioni sembrano molto diverse, ma messe l’una dopo l’altra fanno rima baciata, e compongono il poema eroicomico di un grande partito della sinistra che andò per suonare e finì suonato. Proprio come i pifferi di montagna (iniziali: pm).
Sul sito dell’Associazione la lettera firmata nel 1994. Il ministro: «Cambiai idea dopo il caso del suicidio di un mio indagato»
di Redazione Roma,,,estratto sole240re.it 24 luglio 2025
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