L'intervista Il politologo Giannuli: “Vedo leader deboli, Conte avrà mai aperto un libro? Almeno cambi nome al suo 5 Stelle”
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«Quello di oggi è una cosa molto diversa da quello che era alla sua fondazione. E questa sua mutazione genetica è cominciata nel 2016
Aldo Torchiaro 14.12. 2024 alle 11:31 ilriformista.it lettura4’
Politologo, storico e saggista, Aldo Giannuli ha insegnato all’Università di Bari prima di trasferirsi presso il dipartimento di scienze politiche dell’Università di Milano, dove ha insegnato fino al 2022. Vicino a Gianroberto Casaleggio e a Beppe Grillo, è considerato tra gli ideologici che hanno maggiormente contribuito ad ispirare il M5S nel suo primo periodo di vita.
Cosa sta succedendo nel Movimento Cinque Stelle?
«Quello di oggi è una cosa molto diversa da quello che era alla sua fondazione. E questa sua mutazione genetica è cominciata nel 2016, per una serie di ragioni. La prima delle quali è la morte di Gianroberto Casaleggio. E con quell’evento, l’emergere di un gruppo dirigente del tutto diverso, essenzialmente radunato intorno a Luigi Di Maio che aveva tutt’altro indirizzo politico. E poi nel 2016 il Movimento vinse sia alle amministrative di Roma e Torino e poi al Referendum. Ma vinse troppo».
Si può vincere “troppo”?
«Sì, perché lì iniziò un processo rapido di adattamento all’ambiente politico. Man mano anche gran parte degli iscritti al Movimento prima maniera, iniziarono ad uscirne. E vennero subito sostituti da altri, che individuavano nel Movimento un ascensore sociale particolarmente facile da abordare e su cui salire. Le elezioni del 2018 rappresentarono poi questa svolta, con l’eccezionale risultato – oltre il 30% – per il M5S e l’esperienza di governo che produsse un ulteriore mutamento. Infine, il mutamento decisivo delle elezioni del 2022».
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Cosa avvenne alle ultime elezioni?
«Tutti quelli che erano stati i parlamentari della prima ondata sono stati messi a riposo in onore della regola della incandidabilità dopo due mandati. E una serie di strani episodi per cui in qualche modo sui nuovi prescelti, insomma… ci furono molti dubbi sulla regolarità di quelle consultazioni che poi man mano sono andate sparendo. A dimostrazione che il M5S di oggi non ha nulla a che fare con quello delle origini».
Dice bene Grillo, a questo punto dovrebbero forse cambiare nome?
«Sì, sarebbe un’operazione di onestà intellettuale se cambiassero nome. Anche perché ormai sono una cosa diversa, sono tutt’altro partito. Come prassi politica, come cultura politica, come forme organizzative, come composizione del gruppo dirigente sono un partito del tutto diverso da quel M5S dei quali mantiene solo nome e simbolo. Sarebbe onesto assumere un nome nuovo, arrivati a questo punto».
Una dinamica discendente, una parabola…
«Ogni movimento fortemente innovatore – o diciamo anche di tipo rivoluzionario – tende entro un breve periodo o a realizzare il suo programma o ad adattarsi all’ambiente. È successo al Pci che nel 1921 criticava Lenin da sinistra, poi è diventato negli anni il Pds e poi il Pd, un partito moderato e di potere. Solo che loro ci hanno messo molti decenni, il M5S ci ha messo pochissimi anni. Questa è la differenza».
Grillo cosa farà?
«Non ne ho idea. Sta reagendo, non c’è dubbio. E fa bene. Ma ha aspettato troppi anni, ha ingoiato molte svolte che non condivideva e ha preso l’iniziativa solo quando la cosa è diventata davvero insopportabile. Temo che ormai la frittata sia fatta: dovrebbe recuperare quelle masse elettorali che sono finite nell’astensione, quei tanti iscritti che se ne sono andati, direi per sempre. Non c’è dubbio che un grande patrimonio sia andato perduto, ed è un problema per la politica intera, non solo di quel che rimane del Movimento».
Chi non si rivede più in questo M5S dove finisce?
«Non va più a votare, finisce nella schiera degli sfiduciati che non hanno più alcun barlume di speranza nella politica. E avendo sfiduciato di volta in volta fette di elettorato diverse, ecco che ci ritroviamo con il 52% di elettori che si tiene lontano dalle urne».
Lei che è un docente di storia politica, che senso ha definirsi progressisti indipendenti, nel dirsi progressisti ma non di sinistra? Che arzigogolo è?
(Ride) «Non significa niente. È una battuta detta da uno che usa parole in libertà. La sinistra si è detta sempre progressista, è una delle sue definizioni. Diciamo che il termine progressista era la cornice più lata della sinistra, era un modo per dirsi genericamente di sinistra con un accenno alla sinistra moderata, riformista. Ma dubito che Conte abbia mai letto un libro di storia. Anzi, comincio a pensare che non abbia mai letto un libro».
Si va alla ricerca di leader, a sinistra. Per i centristi, per la sinistra riformista oggi si parla di Beppe Sala e di Ernesto Maria Ruffini…
«Intanto non so se c’è una sinistra riformista. C’è una sinistra che si dichiara riformista, laddove i riformisti sono quelli che fanno le riforme. Io di grandi riforme non ne ho viste né adesso che la sinistra è all’opposizione, né quando erano al governo.
Poi dobbiamo intenderci: se fare riforme vuol dire fare le leggi, sono riformisti anche quelli di Fratelli d’Italia.
Il Pd non è un partito riformista, nel senso che non ha una visione alternativa di società: è un partito conservatore e moderato, quando governa è un partito che amministra il potere e tende a cambiarlo il meno possibile. Al cuore della loro cultura politica c’è la corretta gestione del potere, della pubblica amministrazione. Bene, ma non dicano di avere una visione diversa di società. E i loro leader riflettono quella che è la natura del partito: modesta, senza troppe ambizioni, priva di slancio».
Politico incorona Giorgia Meloni come politica più influente d’Europa, è d’accordo?
«Posto che l’Europa politicamente non esiste bisogna capire con chi ci si confronta. La Francia attraversa una crisi, come sappiamo. La Germania va a elezioni anticipate. L’esito del governo spagnolo è molto modesto. Giorgia Meloni ha il governo più stabile, quello che dura di più? D’accordo. Ma significa che brilla per i demeriti altrui, più che per i propri meriti. Come dicono a Napoli, è ‘nu gallo in coppa ‘a munnezza».
Aldo Torchiaro