La politica industriale torna di moda ma occhio agli abbagli: la sfida di oggi non è più domestica ma è tra Europa, Usa e Cina,(Draghi dixit)
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la politica industriale torna sulla scena quando le cose vanno male”. E in effetti gli ultimi dati sulla produzione industriale in Italia, in Francia e in Germania sono allarmanti
26 Ottobre 2024, 7:00 | di Franco Locatelli | firstonline. Info lettura4’
Nel suo nuovo libro “Per un governo che ami il mercato” l’ex ministro De Vincenti illustra un nuovo modello di politica industriale che deve collocarsi in un orizzonte integralmente europeo o altrimenti è destinata a mordere poco. La sfida di oggi non è tra Italia, Francia e Germania ma tra Europa, Usa e Cina: come non si stanca di avvertire Mario Draghi
La politica industriale torna di moda. Osannata negli anni ’70 e ’80 e poi entrata in un cono d’ombra, salvo trovare un sussulto con il piano Industria 4.0 del ministro Carlo Calenda del 2016 sotto il Governo Renzi, la politica industriale è tornata più di recente in auge negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act volto a sostenere l’innovazione tecnologica americana ma non senza risvolti protezionistici. Perché anche in Europa torna di moda la politica industriale e di che politica industriale si parla? Una risposta tagliente, in un recente seminario organizzato da Astrid, l’ha data l’ex ministro dell’Economia e attuale Presidente di Unicredit, Pier Carlo Padoan, secondo cui “la politica industriale torna sulla scena quando le cose vanno male”. E in effetti gli ultimi dati sulla produzione industriale in Italia, in Francia e in Germania sono allarmanti. Ma ad aprire gli occhi dell’Europa ci ha già pensato il Rapporto Draghi sulla competitività europea dove finalmente si dice con chiarezza che se vogliamo costruire un futuro per il Vecchio continente non si può guardare alla realtà con lo specchietto retrovisore ma occorre affrontare le sfide epocali delle tre transizioni con ingenti investimenti (800 miliardi l’anno) e soprattutto con riforme radicali. La competizione che conta non è più quella tra Italia, Francia e Germania ma quella tra l’Europa di fronte all’America e alla Cina. E’ ora perciò di cambiare l’orizzonte e di cambiare la cassette degli attrezzi.
“Per un governo che ami il mercato” , un libro di Claudio De Vincenti che fa riflettere
Ed è in questa dimensione che si colloca il recentissimo libro dell’economista ed ex ministro del Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, il cui titolo è tutto un programma: “Per un governo che ami il mercato. Una certa idea di intervento pubblico”, edito da il Mulino. Unendo la sua esperienza di studioso con quella di uomo di governo, De Vincenti smonta vecchi paradigmi di stampo liberista o interventista e dirigista, e sostiene che una moderna politica economica da cui può nascere anche una nuova politica industriale deve evitare due abbagli: quello di ritenere autosufficiente la mano invisibile del mercato ma, al tempo stesso, anche quello di chi ritiene che autosufficiente possa essere l’intervento pubblico in economia. Non è così ma, al contrario, per alimentare un clima di fiducia che è linfa vitale per la moderna economia bisogna evitare le vecchie contrapposizioni ideologiche tra Stato e mercato e trovare invece un rapporto dialettico e armonico tra la mano visibile e quella invisibile senza compromessi al ribasso. E’ in questo contesto che si colloca il bisogno di una nuova politica industriale che tuttavia, proprio per la dimensione delle sfide epocali richiamate dal Rapporto Draghi, non ci condanni dentro un recinto puramente domestico ma si collochi in un orizzonte integralmente europeo. Saggiamente De Vincenti scrive che per mettere in campo una nuova politica economica e una nuova politica industriale ci vorrebbe una visione chiara del futuro: ha perfettamente ragione, ma su questo è meglio non farsi illusione e guardare in faccia alla realtà italiana per quello che è. Dopo il Governo Draghi, che rimpiangeremo a lungo, c’è stato solo il buio pesto. Meglio allora rovesciare il tavolo e cambiare il campo di gioco, scommettendo tutto sull’Europa senza nascondere i suoi problemi ma anche le sue potenzialità.
Una nuova politica europea è possibile e urgente se non scade in beghe locali ma concentra le sue risorse e energie nella sfida competitiva con gli Usa e con la Cina. Una politica industriale europea è un banco di prova che deve certamente far tesoro della felice esperienza del Next Generation Eu ma andare molto oltre, perché non si tratta più di raccogliere le risorse a livello europeo e lasciare ai Paesi membri la scelta dei progetti da finanziare ma, al contrario, va assegnato al centro, e cioè alla Commissione europea, anche la selezione dei campi d’azione e la realizzazione degli interventi, concentrandoli su quelli che hanno davvero chances di competere in modo vincente. L’automotive europeo può ancora essere competitivo? Forse sì, ma sull’Intelligenza artificiale, per fare un esempio, è meglio non farsi troppe illusioni perché i nostri ritardi sono pressoché incolmabili.
La nuova politica industriale europea implica la cessione di sovranità nazionale: sfida difficile ma non impossibile
Una nuova ed efficiente politica industriale europea implica, visibilmente, una cessione di sovranità nazionale, ma chi riuscirà mai a convincere non solo la Lega di Matteo Salvini ma tutte le destre italiane ed europee? Nessuno. E’ una battaglia persa fin dall’inizio. Eppure una speranza di ribaltare il corso delle cose c’è ed è quella evocata da Riccardo Perissich nel seminario Astrid. Per contrastare le spinte sovraniste e nazionaliste bisogna far crescere un movimento dal basso delle imprese che costringa i governi a capire che la sopravvivenza dipende dalla capacità di fronteggiare, senza protezionismi, la concorrenza dell’America e della Cina e dunque ad aprire fino in fondo le porte al campo di gioco europeo. Sfida difficile? Difficilissima. Ma non affrontarla equivale a suicidarsi e a darsi per vinti in partenza.