Diciassette anni dopo. Lo sloganismo ruffiano di Schlein non aiuta a risolvere il mistero politico del Pd Il Partito di oggi è un mix di Sessantotto
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prodismo e sentore di Ditta. La sua segretaria non ha una strategia politica chiara e coerente, ma ha il vantaggio di aver rafforzato il controllo interno
15.10.2024 Mario Lavia, linkiesta.it lettura4’
e se cadrà, lo farà alle prossime elezioni politiche
A Fabio Fazio che gli chiedeva se vi sia un nesso tra i suoi romanzi gialli e il Partito democratico, Walter Veltroni, che ha fondato il Pd diciassette anni fa, ha risposto con un sorriso: «No, perché quello è un giallo insoluto». Già, diciassette anni dopo si può dire così: il Pd è un partito strutturalmente cangiante. È proprio nel suo incerto dna la molecola dell’incompiutezza, della provvisorietà, della permanente transitorietà: non sai mai cosa sarà, domani, questo partito – e si fatica persino a stabilire cosa sia oggi.
Quando venne fondato, il 14 ottobre 2007, Dario Franceschini, che ne divenne vicesegretario, disse che il Pd ci sarebbe stato anche quando la sua bambina sarebbe diventata adulta: finora sta vincendo la scommessa, ma siamo sicuri che il Pd, questo Pd, ci sarà tra cinque, dieci o quindici anni? Chi può dirlo. È un partito che va avanti per rotture, non per evoluzione: e questo non è buon segno perché l’organismo viene continuamente sottoposto a stress che rompono un tran tran abbastanza noioso, e per il sistema cardiocircolatorio è un problema.
Il Pd di Veltroni aveva introdotto delle novità potenzialmente dirompenti per il sistema politico, ma cadde subito e dopo fu un susseguirsi di restaurazioni e rivoluzioni caotiche, il primo rinculo a sinistra con Pier Luigi Bersani, la seconda rivoluzione con la svolta renziana, l’età del lungo direttorio di Maurizio Martina, Nicola Zingaretti ed Enrico Letta fino alla terza rivoluzione di Elly Schlein, un impasto, come abbiamo già scritto, di Sessantotto, prodismo e sentore di Ditta.
Ed eccoci qui davanti a questa ragazza passata dal voler occupare il Nazareno a occuparlo per davvero, teorizzando la fine della politica come professione, dunque dandosi preventivamente un tempo e istituzionalizzando, per così dire, la provvisorietà della sua leadership (salvo – ma questo lei non lo dice – che vinca il biglietto per Palazzo Chigi).
Schlein ha portato con sé tutta una nuova generazione che non ha nulla a che fare con gli anni d’oro del Partito comunista italiano e della Democrazia cristiana, e persino poco con il Pd del 2007, e anche per questo lei è la prima leader che non ha l’ansia di essere cacciata via per mano dalle trame nazareniche.
Perché i “vecchi” sono vecchi (gli anziani capi socialisti francesi venivano chiamati «elefanti»: ecco, appunto) e contano sempre meno, tranne che per i giornalisti che pigramente si eccitano per l’ultimo articolo di Goffredone Bettini; e i giovani sono appunto giovani senza troppo «quid», come diceva il Cavaliere di Angelino Alfano, e poi stanno sulla barca di Elly, se si rovescia finiscono tutti in acqua, addio carriera.
Ed è un po’ un paradosso che un certo conformismo, un insistito unanimismo, sia proprio di questa generazione che per la giovane età dovrebbe essere naturaliter più creativa e indisciplinata, ma evidentemente aveva ragione Max Weber: «La direzione dei partiti da parte di capi plebiscitari determina la rinuncia dei seguaci alla propria anima o per dir così la loro proletarizzazione spirituale»: hanno quant’anni ma ne dimostrano il doppio, diceva un vecchio Carosello.
Così, mentre con gli altri leader c’erano sostanzialmente due tribù, con Schlein c’è solo la sua. La leader dunque da questo punto di vista è molto forte: se cadrà, sarà solo alle politiche, non è questione di oggi. Il suo problema è la strategia. Gli altri segretari, bene o male, ce l’avevano. La vocazione maggioritaria di Veltroni, il partito pesante di sinistra di Bersani, la rottamazione e l’ottimismo di Renzi: erano strategie, o almeno linee politiche. Persino Nicola Zingaretti, prima della fuga, aveva dato l’idea di un partito aperto e a braccetto con il Movimento Cinque Stelle: finì malissimo, ma era una posizione.
Poi si è entrati in un ginepraio semantico-geometrico, il campo largo, una sottospecie di discussione che tuttora tarpa le ali di un chiaro progetto autonomo del Pd, da parte sua sempre lento a muoversi, come fosse perennemente imbambolato rispetto ai fatti che accadono, e trattenuto da vecchie e nuove ragnatele correntizie e amicali che lo fanno incespicare a ogni passo.
Spalancando agli occhi del Paese giganteschi buchi di idee e soluzioni: sanità per tutti, scuola per tutti, lavoro per tutti. Ma questo lo poteva dire Enrico Berlinguer che non aveva il problema di dire come si fa a ottenere tutte queste belle cose. Due popoli, due Stati: benissimo, ma attraverso quali vie? Cessate il fuoco in Ucraina, ottimo: ma in vista di che?
Ecco, lo sloganismo del Pd di Elly Schlein è la grande coperta che lo ripara ma che rischia di soffocarlo, allontanando di chilometri e chilometri la vocazione di governo che potrebbe, se praticata, fornirgli la benzina necessaria per correre il Gran premio delle elezioni. Intanto si slalomeggia tra le questioni, si tiene aperta la saracinesca del Nazareno, si fa quel che si può. Diciassette anni dopo non è moltissimo: ma la vita è difficile per un partito non ancora maggiorenne.