Antifascismo per definizione Parlare di patria è paccottiglia nostalgica e un po' fascista? Non proprio
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Il più splendido e toccante omaggio alla patria, da non confondere con la nazione, è nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana.
Nicola Mirenzi 05 ott 2024 ilfoglio.it lettura3’
Il più splendido e toccante omaggio alla patria, da non confondere con la nazione, è nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. Una struggente antologia pubblicata da Einaudi da rileggere oggi
Lilli Gruber si sente male “a sentir parlare di patria”. Il professor Giovanni De Luna, invece, pensa subito al Mussolini a torso nudo nell’Agro Pontino. Mentre Luca Bottura ironizza con “loro alla patria”, anziché l’oro, per sbeffeggiare il goffo invito del ministro Lollobrigida a servire la patria nei campi. Il sottotesto è che la patria sia fascista, robaccia da buttare alle ortiche, paccottiglia nostalgica. Eppure il più splendido, toccante, carnale omaggio alla patria, è nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, struggente antologia pubblicata da Einaudi (non proprio un libro di testo dei Fratelli d’Italia).
“Caro papà, tu che sei un uomo di alti sentimenti, sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l’ideale della Patria più libera e più bella”. Così scrive Renzo, maiuscola inclusa, prima di farsi ammazzare. Non si sa nient’altro di lui, se non che i nazifasciti l’hanno arrestato e poi passato per le armi. Mentre di Raffaele Andreoni si conosce l’età (vent’anni), la professione (meccanico), il posto da cui viene (Fiesole). Scrive: “Lascio la mia vita così giovane per la mia famiglia, per la mia Patria, ho amato l’una e l’altra con amore, più di quegli uomini che oggi mi tolgono la vita”. Sui centododici della raccolta, sono quaranta i partigiani che, prima di morire, affermano di morire per la patria. C’è Franco: “Mamma adorata”, scrive, “possa il mio grido di ‘Viva l’Italia libera’ sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte; per il bene e per l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice!”. Non contro, ma in nome della patria fecero la resistenza. Mario: “Cari genitori, perdonatemi se ho preposto la Patria a voi”. E poi Achille Barilatti: “Dita adorata, la fine che prevedevo è arrivata. Muoio ammazzato per la Patria”.
Pensava Simone Weil che è proprio il sentimento della patria ad aver spinto i popoli europei a resistere al nazismo. I nazi credevano nel sangue e nel suolo, nella purezza, nella grandezza, nella forza, nella superiorità della propria nazione. Per gli anti nazi – sostiene invece Weil – l’amore per la patria è il contrario dell’amore per il vigore nazionale: è piuttosto amore per la delicatezza della patria, ovvero il sentimento di “una cosa preziosa, bella, fragile, peritura”, che è esposta alle sventure, e può essere distrutta. E, dice Simone Weil, questo si ama, quando si ama la patria. E questo si difende.
A chi vengono i brividi quando sente la parola patria, il socialista libertario George Orwell consiglierebbe di distinguerla dalla parola nazione. “Il nazionalismo è inseparabile dal desiderio di potere”, scriveva, mentre “il patriottismo è per sua natura difensivo, tanto militarmente quanto culturalmente”. In più, la patria italiana non l’hanno creata Italo Balbo, Roberto Farinacci, Emilio De Bono o gli altri gerarchi fascisti, ma è di Dante, di Petrarca, di Machiavelli. Un’invenzione letteraria. E poi – solo poi – politica, di Mazzini, di Garibaldi, di Cavour.
Umberto Saba immaginava l’Italia come una madre, e credeva che “i nazionalisti” fossero innanzitutto “cattivi figli”, perché vogliono “cambiare la madre”, renderla più energica, più fiera, mentre il patriota la ama per quello che è: anche nelle sue piccolezze, nei suoi vizi, nelle sue storture. Per questo, secondo Saba, il patriottismo sta al nazionalismo come la salute sta alla nevrosi.
Lo raccontava un libriccino di qualche anno fa – Alla mia patria ovunque essa sia – del critico letterario Filippo La Porta. Modello di patriota di La Porta è Raffaele La Capria, per una confessione limpida che ha lasciato. “Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita – scriveva –, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla, nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’unità d’Italia”. Cosa c’entri tutto ciò con il fascismo un giorno ce lo diranno, quelli che maledicono la parola patria.