Veronica De Romanis: “Per fare le riforme serve una ‘storia’, sul superbonus nessun partito è innocente, è stato un banchetto
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"Il primo passo da fare? Ripartire dalla scuola"«In Italia c’è l’abitudine a fare le riforme solo in emergenza, come nel caso della legge Fornero
Vittorio Ferla — 7 Agosto 2024 ilriformista.it lettura 6’
“Serve una pianificazione sul lungo periodo per uscire dall’ottica delle riforme in stato di emergenza. Un esempio virtuoso? La Grecia, che con il suo fi tto programma sta riducendo il rapporto debito/Pil”
Veronica De Romanis: “Per fare le riforme serve una ‘storia’, sul superbonus nessun partito è innocente, è stato un banchetto”
Perché il riformismo fatica ad attecchire in Italia sul piano delle regole, della mentalità e degli schieramenti politici? Cominciamo un ciclo di interviste sulle riforme da fare con Veronica De Romanis, economista e saggista, docente di European Economics all’Università Luiss di Roma e alla Stanford University di Firenze.
Quali sono le ragioni alla base dell’incapacità di fare le riforme?
«In Italia c’è l’abitudine a fare le riforme solo in emergenza, come nel caso della legge Fornero. Eppure, i dati sono chiari: siamo un paese che invecchia, con un tasso di natalità che scende. Finita l’emergenza, nessuno si è intestato la riforma. Anzi c’è stata Quota 100, misura che impatta sui conti ancora oggi nonostante sia scaduta. Ma il governo attuale ha dovuto ammettere che la Fornero è necessaria».
Che cosa serve per fare le riforme senza l’assillo dell’emergenza?
«Per fare le riforme serve una “storia” ovvero un governo capace di raccontare, convincere i cittadini che ci sarà un periodo di sacrifici e poi si raccolgono i frutti. Per questo racconto serve del tempo e una visione dell’economia. Questo è mancato e si sono fatte le cose solo in emergenza. Viceversa, le riforme sono essenziali. Basti guardare la performance di Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, i paesi che hanno avuto un programma di aggiustamento monitorato dalla cosiddetta troika europea. Secondo le ultime stime del Fmi, oggi crescono molto più di noi e hanno conti pubblici migliori: il rapporto debito/Pil greco diminuisce, mentre il nostro sale».
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Crescita, lavoro, impresa, progresso: parole chiave assenti dal discorso pubblico del centrosinistra. Qual è l’agenda riformista del nostro tempo?
«Una sola parola: formazione. Quindi scuola, iniziando dagli asili nido. Un paese che ha oltre due milioni di Neet (erano di più, è vero, ma la cifra è la più elevata d’Europa), è destinato a perdere capitale umano in modo strutturale. I dati Invalsi ci restituiscono una fotografia drammatica: una percentuale significativa di studenti legge ma non capisce il testo che sta leggendo e questo crea problemi; lo stesso vale nella comprensione dei testi di matematica. Come può un paese così sfruttare al meglio l’innovazione tecnologica che arriva dall’intelligenza artificiale? Come fare per aumentare la qualità della nostra scuola? Spendere non basta. Serve un cambio anche culturale. Siamo uno dei pochi paesi con tre mesi di pausa estiva. È dimostrato che questa lunga pausa avvantaggi i figli delle famiglie abbienti che ne approfittano per svolgere attività di studio e formative e svantaggia gli altri. Perché non si fa una battaglia in questo senso?».
Lei ha scritto a proposito dell’austerità “buona”. È questo il perno di un programma di riforme progressista?
«Riordinare il bilancio dello Stato, a mio avviso, è la principale riforma da fare. Abbiamo una pressione fiscale molto elevata che può essere ridotta solo diminuendo le spese in modo strutturale. Ciò significa non solo tagliare ma anche ricomporre, mettendo le risorse dove servono di più. Siamo i primi in spesa previdenziale, ma sotto la media europea per la formazione. Abbiamo inoltre una spesa molto iniqua che avvantaggia i ricchi».
Un esempio?
«Ne faccio due. Primo: la spesa per interessi sfiora gli 85 miliardi, per l’istruzione ne spendiamo 70. Si tratta di una spesa iniqua perché toglie risorse alla collettività, quindi ai servizi pubblici come trasporti, sanità e scuola, per distribuirla ai bondholder ovvero a coloro che hanno comprato il nostro debito che non sono certamente i più fragili della società. Secondo: le tax expenditures, 625 voci di deduzioni e detrazioni per un gettito perso di oltre 100 miliardi. Una giungla di voci che si ripetono, dove il 15% delle detrazioni va al 50% dei contribuenti più poveri, mentre il 26% delle detrazioni al 10% dei più ricchi. Tutti i partiti promettono di metterci le mani (il Movimento 5 Stelle aveva promesso nella campagna elettorale del 2018 tagli per 40 miliardi l’anno, una cifra monstre: le voci invece di calare sono aumentate). Ma nessuno lo fa, perché togliere un privilegio è percepito come una tassa in più».
Il Next Generation Eu può essere un primo passo verso un bilancio comune europeo?
«Il Ngeu si basa su sussidi e debito garantito dagli Stati per finanziare investimenti e riforme di tipo nazionale. Noi abbiamo persino destinato circa 14 miliardi pure per il bonus 110%: uno scandalo! Il debito europeo è un’altra cosa. Serve per finanziare beni pubblici europei, quindi beni che servono a tutti come la difesa. Ma attenzione. Il debito europeo richiede un fisco europeo. I partiti sono pronti a tassare i cittadini italiani con decisioni prese dal parlamento europeo?».
Riusciremo a realizzare al meglio il Pnrr vista la condizione della nostra macchina amministrativa?
«Conte ha presentato i soldi dell’Europa come un “premio” per aver negoziato bene, Draghi come “debito buono”, quindi da prendere tutto e subito. Hanno sbagliato entrambi il racconto. Questa narrazione sbagliata ha fatto sì che il paese con la burocrazia più complessa prendesse tutto e subito. E oggi ci ritroviamo con problemi enormi di attuazione. E con 121 miliardi di debito in più, che costa meno nel debito nazionale, ma sempre debito è. Si doveva avere un approccio più graduale e selezionare: l’elevata parcellizzazione dei progetti, ossia tanti e piccoli, dimostra quanto tutta la politica abbia avuto una fetta di interesse».
Il socialpopulismo italiano ha prodotto quote 100, superbonus e reddito di cittadinanza. Lei ha scritto un libro dal titolo: “Il pasto gratis”. C’è un problema culturale nel nostro paese?
«Sì, esiste un grande problema culturale che nasce da due equivoci. Il primo è che più spendi più cresci. Non è così: lo dimostra il fatto che il nostro Pil è di nuovo sotto la media dell’area dell’euro».
E il secondo equivoco?
«Che spendere a debito non sia un problema. Perché le misure si autofinanziano. Non è così. Il debito costa, lo si è detto, vale circa 85 miliardi l’anno. E nel 2026 si arriverà a quota 100 miliardi. E poi il debito rende vulnerabili. Nel mio libro lo paragono a una crepa nel cristallo dell’auto: può stare lì per molto tempo, si può guidare a lungo e non succede nulla, poi arriva un sassolino, ossia una crisi, e viene giù tutto. Insomma, non si hanno margini di manovra per far fronte alle crisi. Lo abbiamo visto con la pandemia: oltre ai 200 miliardi del Ngeu, ne abbiamo presi altri 27 dal fondo Sure per finanziare la Cassa integrazione».
Il Superbonus è il caso che meglio spiega quanto la spesa improduttiva sia la cifra culturale della nostra classe dirigente…
«Sì, sul 110% vale la pena dire una cosa chiara: nessuna delle forze politiche può rivendicare la propria innocenza rispetto al banchetto più insensato e costoso della storia economica italiana degli ultimi tempi. Il governo Conte due che introduce il super bonus spiega che è “gratis”, ossia che si rifinanzia da solo: una magia! La misura, peraltro, si è dimostrata regressiva. Coloro che non hanno neanche una casa stanno pagando il conto lasciato da quelli che hanno ristrutturato la loro casa a spese di tutti. E se metti risorse per il superbonus le togli alla scuola, alla sanità e ai trasporti. Questa è la storia che andrebbe raccontata».
Crescita zero, produttività stagnante, debito in rapporto al Pil tra i più elevati e in crescita, disoccupazione giovanile e femminile: sono i problemi che affliggono l’Italia da alcuni decenni. Che fare?
«La prima riforma da fare è una ricomposizione della spesa con un’ottica di lungo termine. Poi la scuola e l’occupazione femminile. Un paese dove solo una donna su due lavora non può crescere. Non si fanno figli e si creano disuguaglianze: la Caritas ci dice che il povero oggi è la mamma sola con minori a carico. Ecco perché l’occupazione femminile è, insieme, il problema e la soluzione. Con più donne sul mercato del lavoro aumenta la ricchezza prodotta, si inverte la curva demografica e si riducono le disuguaglianze. Come fare? Distribuire risorse con i soliti bonus non basta. Serve stabilità, quindi un lavoro. Servono infrastrutture (asili nido e di cura per gli anziani), un fisco che avvantaggi il lavoro del secondo coniuge e un cambio culturale che passa dall’introduzione di quote di genere temporanee».
Vittorio Ferla
Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient