Il banco di prova C’è caldo e si parla di elezioni, ma non c’è crisi di governo, c’è crisi di leadership

Meloni, Salvini e Tajani hanno dimostrato di essere troppo legati al potere per permettere ai loro bisticci quotidiani di sfociare in un patatrac della maggioranza.

26.7,2024 Mario Lavia, linkiesta.it lettura 2’

Ma la gara su chi è più trumpiano inizia a creare una piccola crepa difficile da rimarginare

Una crisi di governo non pare all’orizzonte, la crisi politica della maggioranza invece è persino accecante. Nulla di nuovo sotto il solleone di fine luglio, periodo in cui tradizionalmente fa capolino la chiacchiera da ultimi giorni di scuola sulle elezioni anticipate. Non merita grande spazio rilevare che Giorgia Meloni e i suoi fratelli e amici non hanno la benché minima intenzione di lasciare non tanto il governo ma il potere che ne deriva, occupando il quale, e sino al parossismo, si alimenta un consenso più vasto di quelli che si possa pensare.

E l’opposizione, che fa benissimo a evocare lo spauracchio delle urne perché questo mette pressione sui governanti, sa bene che essa stessa ha ancora bisogno di tempo, malgrado le recenti buone notizie (Europee, accordi nelle Regioni e sulle firme contro l’autonomia differenziata, nuovo rapporto con Matteo Renzi), per accreditarsi come alternativa già pronta. Calma e gesso, dunque. Questi del governo, come minimo, mangeranno il panettone.

Più interessante è cercare di capire se tra i tanti motivi di debolezza del centrodestra ve ne siano di strutturali. Se cioè al di là delle quotidiane polemiche su questo o quel dossier, esistano dei tarli che alla lunga possano far collassare la baracca. La risposta è sì. Il problema più evidente è quello della doppiezza in politica estera, unico caso al mondo. L’Europa già si sta vendicando dell’ostilità della presidente del Consiglio italiana che con il voto contrario a Ursula von der Leyen non solo si è ficcata tra gli antieuropeisti ma lo ha fatto con il massimo di improvvisazione e di insipienza professionale.

Matteo Salvini invece di placarsi ha fiutato la debolezza della presidente del Consiglio. La gara tra lui e Meloni a chi è più trumpiano è destinata a entrare in conflitto con gli interessi italiani – vi ha alluso Sergio Mattarella – perché l’Italia ha bisogno di mercati aperti e di un clima internazionale di cooperazione. Lo sanno bene i nostri industriali.

La famiglia Berlusconi se n’è accorta e per questo morde il freno premendo su Antonio Tajani perché faccia qualcosa. La stessa corsa di Renzi verso il centrosinistra dà l’idea che l’altra parte sia non solo inaffidabile ma pericolosa.

La presidente del Consiglio non regge la duplice pressione della Lega da un lato e di Forza Italia dall’altro: e in questo quadro sembra che la bulimia di potere sia come una fuga, un diversivo per mostrare a se stessa che conta solo lei, una prova di forza continua di chi ha un fisico debole. Ma ci vuole tempo perché gli effetti dell’isolamento internazionale e quelli della pochezza della leadership siano avvertiti dall’elettorato.

Ci vuole una manovra economica che non potrà che scontentare larghe fasce di popolazione. Quello sarà un vero banco di prova: fare quadrate i conti senza alimentare problemi sociali è roba da grande leader. Non Meloni, che vuol fare credere che adesso la sanità funzionerà per decreto. E poi certo il voto americano conterà psicologicamente moltissimo. Già adesso si sente dire che se Kamala Harris ha riaperto la partita negli Stati Uniti, allora anche Elly Schlein la sta riaprendo in Italia. Ma occhio a fare certi paragoni, ché la strada è lunga. E tuttavia i tarli stanno mordendo la scrivania di Giorgia Meloni.

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