-Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”

-Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”. Figli orfanotrofio

Redazione oòriformista.it — 22 Luglio 2024 ilriformista.it lettura5’

Quando Trump sosteneva la campagna di Kamala Harris: le donazioni da migliaia di dollari per la procuratrice generale della California

Redazione — 22 Luglio 2024 ilriformista.it

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Trump aveva finanziato Kamala Harris

Aspre critiche anche per Kamala Harris: “La corrotta Kamala è la favorita a prendere il suo posto, ma potrebbe trattarsi di chiunque altro della sinistra radicale. Chiunque sia il candidato continuerà a seguire il programma fallimentare di Biden: inflazione galoppante, un’invasione al confine Sud e il caos nelle nostre città” L’invettiva ribalta un precedente storico: in passato Trump era stato tra i sostenitori di Harris nel periodo in cui era candidata a procuratrice generale della California. Una storia, quella delle donazioni di Trump a Harris e ad altri candidati democratici è riemersa per la prima volta nel 2020, dopo che Biden aveva scelto Harris al suo fianco nella corsa delle presidenziali.

Secondo i registri pubblici disponibili sul sito web del Segretario di Stato della California, riportati da Business Insider, il candidato repubblicano ha donato un totale di 6mila dollari alla campagna, 5mila nel 2011 e 1.000 nel 2013, quando era un privato cittadino. E non fu l’unico membro della famiglia Trump. Su figlia Ivanka ne donò 2mila l’anno successivo. Al tempo Harris era candidata procuratrice generale della California (carica ricoperta dal 2011 al 2017) per poi venire eletta al Senato degli Stati Uniti. Un portavoce di Harris ha dichiarato al Sacramento Bee che nel 2015 i soldi ricevuti da Trump erano stati donati a un gruppo no-profit che aiuta i centroamericani.

-Il caso di ‘Giacomo’, il bambino di due anni che vive in carcere con sua madre a Rebibbia: non parla e dice solo “apri” e “chiudi”

Redazione — 21 Luglio 2024

Carcere

Ha due anni, non corre, parla a malapena e vive in carcere. È il caso di ‘Giacomo‘, un bambino che ormai da dieci mesi si trova insieme alla madre nell’istituto penitenziario di Rebibbia, a Roma, non certo per colpe sue. Nel carcere c’è una sezione nido dove si trovano i figli dei reclusi, come è Giacomo: la madre, una trentenne italiana, sta scontando una pena per reati minori; e anche il padre, il compagno della donna, si trova a Rebibbia.

Dieci mesi in carcere, quindi, per Giacomo. E le condizioni in cui vive lo hanno portato a problemi di crescita e non solo: il piccolo – come racconta Repubblica – ha maturato un ritardo nello sviluppo psico-motorio. In più, non parla, non corre, è sovrappeso, porta ancora il pannolino. Dice solo poche parole: ‘sì’, ‘no’, ‘mamma’, ‘papà’, ‘apri‘ e ‘chiudi‘.

Il caso di Giacomo a Rebibbia, la nota dei senatori Pd

Dopo la denuncia di Repubblica, il caso è stato rilanciato dal Partito Democratico. I senatori del Pd, Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Walter Verini e Cecilia d’Elia, hanno prima definito “agghiacciante” la vicenda. “Tra le emergenze delle carceri italiane, che vogliono dire suicidi quotidiani, sovraffollamento disumano, trattamenti privi di seri e diffusi percorsi di recupero e reinserimento, situazione difficilissima per gli agenti di polizia penitenziaria) c’è anche la vergogna dei minori in carcere con le madri detenute“, si legge nella loro nota. “Riproponiamo di abolire questa situazione di crudele inciviltà, proprio in occasione del voto sugli emendamenti al decreto carcere che inizierà questa settimana in Commissione Giustizia al Senato dove andrà in aula la prossima settimana” proseguono i senatori Pd. “Ci batteremo e vogliamo sperare con forza che tutti i gruppi si uniscano per dire davvero basta alla vergogna dei bambini reclusi nelle carceri di questo Paese” hanno concluso i senatori.

La visita in carcere a Rebibbia

Ma gli esponenti del partito di Elly Schlein sono andati oltre alla semplice nota. D’Elia e Verini si sono infatti recati nel carcere femminile di Rebibbia, in particolare nella sezione nido per “incontrare di persona ‘Giacomo’, innocente assoluto di due anni e sua madre”. “Un’esperienza drammatica, com’è sempre la visita al nido di un carcere. Al momento in quello di Rebibbia ci sono tre bambini, che abbiamo incontrato e di cui dalle madri abbiamo ascoltato le storie, molto diverse fra di loro. Ma simile è la sofferenza. È inaccettabile che ci siano bambine e bambini nelle nostre carceri. Sulla situazione particolare di Rebibbia verificheremo con i garanti territoriali quali possono essere le soluzioni da perseguire” hanno affermato i due dem.

Poi l’attacco alle misure proposte dal governo di Giorgia Meloni: “Da domani come senatori saremo impegnati nella discussione del decreto carceri, che inizia il suo iter a Palazzo Madama. Un decreto vuoto, che non affronta l’emergenza carceri e il sovraffollamento. I nostri emendamenti intervengono per umanizzare davvero le carceri, per riempire quel vuoto e anche per liberare finalmente i bambini dal carcere. Continueremo la nostra battaglia per abolire questa situazione crudele, aumentare le case famiglia e gli istituti a custodia attenuata. Ci auguriamo che le forze di maggioranza accolgano queste nostre proposte, che sono proposte di civiltà”.

- I figli dei detenuti mi fanno ripensare a quando ero in orfanotrofio e tentai il suicidio. Lettera dal carcere, dove l’amore è qualcosa di sbagliato

Jorge Martinez — 22 Luglio 2024

I figli dei detenuti mi fanno ripensare a quando ero in orfanotrofio e tentai il suicidio. Lettera dal carcere, dove l’amore è qualcosa di sbagliato

Sono nato in un orfanotrofio in Honduras, e fino agli 8 anni ho pochissimi ricordi. Credo che si tratti di una difesa della mia mente, che per non impazzire ha preferito dimenticare la tanta sofferenza vissuta. A 8 anni, assieme a tre miei compagni di dolore, decidemmo di scappare, per cercare le nostre famiglie, ma ci ritrovammo invece in una condizione di bambini soli e abbandonati. Fui fermato dalla polizia e portato in un altro orfanotrofio, stavolta in Messico, senza più nemmeno la compagnia dei tre bambini che erano fuggiti con me. Scappai nuovamente, ma solo e senza alcun obiettivo né speranza per il futuro, decisi di farla finita. Non ci pensai due volte, e mi buttai da un ponte. Mi svegliai dopo 9 giorni di coma, con le flebo attaccate al braccio in un letto d’ospedale.

Dall’orfanotrofio al carcere

Se provo a ricollegare la mia infanzia in orfanotrofio alla mia attuale vita in carcere, trovo una strana coincidenza. In orfanotrofio potevo ricevere le cosiddette “visite familiari” tre volte l’anno. Anche in Italia la somma dei colloqui – 6 ore al mese – è di tre giorni l’anno, ma quando si parla di affetto e di amore in un Paese civile come l’Italia, non si dovrebbe essere così avari. Non avendo mai avuto nessuno che si occupasse di me, nella mia vita non ho mai sperimentato l’amore. Tante volte mi sono domandato cosa fosse, se davvero esistesse, e ho trovato la risposta soltanto quando ho conosciuto la donna che è diventata la mia compagna, la mia unica famiglia, così importante per me che non smetterei mai di ringraziarla: per il bene che mi dimostra, per il fatto che non mi giudica.

Ogni volta che la sento al telefono, mi sento finalmente parte di una famiglia. Ogni volta che viene a colloquio, e che vedo i figli degli altri detenuti, ripenso a quando ero in orfanotrofio. Questi bambini non sono orfani, ma li fanno sentire tali, perché il tempo per stare con i loro padri è troppo poco, e a colloquio non possono fare nulla che li faccia sentire parte di una famiglia completa. Una cosa, proprio non riesco a capire fino in fondo: in America Latina ho sentito parlare dell’Italia come di un Paese evoluto, ma allora come è possibile che chi è privato della libertà venga privato anche dell’amore? Ma allora l’amore è qualcosa di sbagliato?

Jorge Martinez

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