Scambiare per vendetta l'autodifesa degli ebrei aggrediti e martirizzati rasenta l'assurdo

Israele doveva pur fare qualcosa per tutelare la sua esistenza. Altro che colonialismo

GIULIANO FERRARA 11 NOV 2023 ilfoglio.it lettura4’

Il 7 ottobre segna la vittoria del nichilismo islamista politico. Se il nemico, invece di statualizzarsi, si è immerso nel fondamentalismo e nella negazione dell’altro, Israele doveva pur fare qualcosa per tutelare la sua esistenza. Altro che colonialismo

Lo stupore triste di Liliana Segre: “Mi sembra di aver vissuto invano”. La reazione incollerita e dura di Edith Bruck. Per loro, e per altri tra i quali molti che scrivono qui e leggono qui, è stato un trauma inaspettato constatare che, dopo una breve fiammata di sdegno per il 7 ottobre dei kibbutzim, limitata a minoranze e avanguardie varie, è prevalsa una massiccia ondata di negazionismo, di aperta ostilità a Israele in nome della causa palestinese, il tutto mescolato con atti di codardia e di rinuncia a esprimersi in molte istituzioni e in molti ambienti e, peggio, con il risorgere di atteggiamenti che mescolano antisionismo e antisemitismo della più vieta e classica schiatta razziale.

Una reazione è in corso, in mezzo a polemiche fino a ieri inimmaginabili e dissociazioni ideologiche (come in Francia), ma il tono prevalente, e non solo per preoccupazioni umanitarie riguardanti il dramma dei civili e dei bambini a Gaza, è segnato da incomprensione e talvolta odio verso il diritto di difendersi di Israele e degli israeliani e degli ebrei di tutto il mondo. La parola d’ordine è: questa è una vendetta carica di sproporzione e di ira biblica, ne va della sorte degli innocenti.

C’è chi sostiene (Thomas Friedman, Lucio Caracciolo) che Israele non avrebbe dovuto fare nulla dopo il pogrom, stare ferma, e incassare la pietà per le vittime senza replicare se non con azioni mirate verso la leadership dell’ala militare di Hamas, evitando una catena di lutti, licenziando Netanyahu e avviando un negoziato di pace con tutti gli attori in campo, riaprendo alla prospettiva dei due popoli e due stati. Il che sembra a chi scrive un’astrazione incomprensibile e un’enormità morale: scambiare per vendetta l’autodifesa degli aggrediti e martirizzati ha del madornale, rasenta l’assurdo. Ma l’assurdo e il trauma derivato dall’ondata antisraeliana hanno una spiegazione razionale, e tentare di fissarla qui è un modo per non staccare le basi della discussione con chi è in buona fede dal terreno solido dei fatti, oltre la spirale infernale della propaganda e dell’infatuazione ideologica.

      

Non è solo perché l’occidente ha preso a odiarsi in nome della colonial culture e del wokismo che il buon nome di Israele, come notava ieri qui Sofri citando Levi della Torre, appare compromesso anche nell’opinione di gente che non ha l’ombra del pregiudizio antisemita. Non è solo per questo che docenti e studenti sbandierano i colori della Palestina e bruciano la bandiera con la stella di David in travolgenti manifestazioni di piazza. Non è solo questo che ha aperto spazio a gesti di delirio antisemita. Al fondo della questione c’è un problema politico, e in questi casi la razionalità politica è di aiuto anche per la presa di posizione etica. E il problema è il seguente.

      

Israele ha effettivamente assunto le sembianze di uno stato coriaceo, di un potere militare aggressivo e intollerante, e la fine del mito della sua invincibilità, come sempre succede, ha alimentato il giudizio negativo sulla sua provvisoria leadership di governo, Netanyahu, il Likud e i brutti ceffi della destra oltranzista. Il tutto complicato dalla trasformazione fatale di una battaglia interna sul tema dei limiti del potere giudiziario o dell’invadenza del governo alla ricerca dell’impunità e delle mani libere in una contesa per la vita e per la morte intorno alla natura democratica dello stato ebraico.

Ma non è solo il wokismo e il disprezzo occidentale di sé, il senso di colpa ormai senso comune nelle Università dove si forma la classe dirigente, la causa di questa percezione.

Con la lunga funzione di guida di Netanyahu, comunque la si pensi sul suo comportamento personale e sul suo profilo di uomo di stato, Israele ha fatto una scelta che non è autocratica né coloniale, sebbene la questione dei coloni sia oggettivamente come una cisti o un cancro difficile da curare. La scelta è di cercare la pace con stati potenzialmente disponibili a farla, passando oltre una autodeterminazione statuale palestinese che dopo il fallimento degli accordi di Oslo del 1993 è stata sopravanzata dall’islamizzazione politica del conflitto e dal rilancio della pretesa di annichilire Israele spazzandola via dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.

Il pogrom è stato certo una vittoria sullo Shin Bet e sul governo di Gerusalemme addormentato, ma innanzitutto è stato una vittoria di una linea, di derivazione anche iraniana (con tutto quello che ciò significa), del nichilismo islamista politico contro una linea di appeasement originata dagli accordi di Camp David tra Israele Egitto e Giordania dopo la guerra dello Yom Kippur e dall’evoluzione sviluppista e antiraniana degli stati arabi del Golfo, fino alla prospettiva di un accordo decisivo con i sauditi. I fatti dicono, al di là di facilismi e demonizzazioni, che l’immagine di un Israele arrogante, intollerante e neocoloniale non si è costruita in base a un sogno di dominazione delirante degli ebrei estremisti e pro apartheid ma per il fallimento politico dell’unica strategia possibile verso i due stati e l’autonomia reciproca di israeliani e palestinesi, fallimento incarnato dal rifiuto fatale di Arafat. Si può diabolizzare quanto si vuole Netanyahu, che attira su di sé il massimo dell’ostilità, ma anche il grande Rabin, ucciso da un fanatico della destra israeliana, fu duro con l’intifada in Cisgiordania, cercò di contenere Hamas con metodi analoghi a quelli del successore, anche lui che predicava la pace con il nemico fece i conti con il fallimento di un progetto e con le sue conseguenze. Il buon nome di Israele non è compromesso dalla cattiveria dei suoi capi o del suo popolo, oggi intirizzito in una legittima paura esistenziale e deciso a una svolta nel segno di una unità nazionale imperfetta ai vertici ma strenua alla base. Se il nemico, invece di statualizzarsi, si è islamizzato e immerso nel fondamentalismo e nella negazione dell’altro, ben saldo nel circuito di alleanze dell’Iran dei mullah, Israele doveva pur fare qualcosa per tutelare la sua esistenza politica. Questo è il fondo della faccenda, altro che colonialismo. Il Sinai e Gaza li avevano ceduti, perfino i coloni erano stati costretti a una diaspora interna, ma queste cose hanno un senso se dall’altra parte il nemico punta sulla ragione e la statualità, non se punta all’incendio delle sinagoghe e poi al pogrom.

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