C’è un’ombra da 480 miliardi che aleggia sui conti pubblici: è la coda lunga degli aiuti alle aziende negli anni del Covid –
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L’inchiesta. Ora però quelle misure rischiano di creare un nuovo shock per le finanze pubbliche e non si potrà fare tutto
16 OTTOBRE 2023 - 11:24 di Gianluca Brambilla open.online lettura5’
Con il Fondo nazionale di garanzia e le misure “spalmadebiti”, lo Stato ha fatto da scudo alle imprese durante la pandemia. Ora però quelle misure rischiano di creare un nuovo shock per le finanze pubbliche
«Non si potrà fare tutto», «Sarà complicata», serve un «controllo ferreo» della spesa pubblica. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha reso chiaro già in più occasioni che i soldi a disposizione del governo per la Legge in Bilancio, che oggi approda in cdm, sono pochi. Secondo il titolare del Mef, una buona parte della colpa è da attribuirsi agli effetti del Superbonus sulle finanze dello Stato. Ma c’è un’altra voce di spesa risalente agli anni del Covid che rischia di trasformarsi – se non ora, nel prossimo futuro – in una mina sui conti pubblici. Si tratta delle perdite accumulate dalle aziende italiane negli anni della pandemia, in parte mai davvero recuperate. Per aiutare il tessuto economico del Paese a non cedere sotto il peso delle restrizioni anti-Covid, lo Stato è andato incontro agli imprenditori in due modi. Il primo: istituendo un Fondo ad hoc per garantire – totalmente o parzialmente – il finanziamento delle imprese in difficoltà. Il secondo: dando la possibilità alle aziende di “congelare” i debiti contratti nel 2020, 2021 e 2022 e differire il ripianamento dei conti nei cinque anni successivi. C’è solo un problema: non tutte le aziende ora si trovano nelle condizioni di recuperare le perdite accumulate in quel periodo. Una situazione che rischia di trasformarsi in una spada di Damocle sui conti pubblici e, più in generale, sulla tenuta del mondo delle imprese. Ma quali sono le dimensioni di questo potenziale shock per le casse dello Stato? Complessivamente, la cifra potrebbe arrivare fino a 480 miliardi. Vediamo perché.
Il rischio per i conti pubblici
Per quanto riguarda il Fondo nazionale di garanzia, istituito nel 2020 con il decreto “Liquidità” dal secondo governo di Giuseppe Conte, le passività di cui si è fatto carico lo Stato ammontano a circa 300 miliardi di euro. O almeno questa è la stima fatta dall’ex ministro Giulio Tremonti in una recente intervista al Corriere della Sera. Con lo strumento messo in campo dal governo giallorosso, lo Stato si è offerto di fare da garante per tutte le aziende in difficoltà economica o in bisogno di liquidità. Il meccanismo era il seguente: le banche prestano alle imprese il denaro di cui hanno bisogno a un tasso fisso e molto conveniente (1%), sapendo che in caso di criticità avrebbero potuto rivalersi sullo Stato. Il problema è che non tutte le aziende che hanno aderito al Fondo nazionale di garanzia sono riuscite – o riusciranno – a ripagare i soldi presi in prestito. E questo rischia di trasformare lo scudo del governo per le imprese indebitate in un boomerang per le finanze pubbliche.
A questi 300 miliardi di garanzie si sommano poi le conseguenze del congelamento dei debiti. Stando ai dati elaborati da InfoCamere per Open, ammontano a 180 miliardi le perdite complessive accumulate dalle aziende italiane – o perlomeno da quelle che hanno l’obbligo di depositare il bilancio – nel 2020, 2021 e 2022. In una situazione di normalità, un’azienda che ha perdite superiori a un terzo rispetto al proprio capitale sarebbe costretta a un intervento finanziario o ad avviarsi verso il fallimento. Gli anni del Covid però sono stati tutto fuorché normali. Ed è per questo che una serie di decreti firmati negli ultimi anni – l’ultimo approvato dal governo Meloni a gennaio – ha concesso alle imprese la possibilità di non ripianare quei debiti nei termini previsti dal Codice civile, ma di spalmarli nei cinque anni successivi. Questo significa che le perdite registrate nel 2020 possono essere ripianate entro la fine del 2025, quelle del 2021 entro la fine del 2026 e quelle del 2022 entro la fine del 2027. Resta il fatto che quei 180 miliardi non sono svaniti nel nulla. Sono stati semplicemente “congelati”. E quando arriverà il momento di ripagare le perdite accumulate negli anni del Covid, non tutte le aziende saranno in grado di farlo.
Quei 180 miliardi di debiti ancora da ripianare
È ancora presto per avere una stima esatta delle dimensioni che assumerà questo fenomeno. Il rischio però è più che concreto e a indicarlo sono gli stessi dati di InfoCamere. Nel 2019, l’ultimo anno del pre-Covid, le perdite complessive registrate dalle aziende italiane ammontavano a 59 miliardi, per una media di circa 161mila euro per azienda. Nel biennio successivo, quello del Covid, le perdite sono schizzate rispettivamente a 81 miliardi nel 2020 e 66 miliardi nel 2021, ben al di sopra dei livelli pre-pandemia. Solo nel 2022 iniziano a vedersi i primi segnali di ripresa, con le perdite di bilancio ridotte a circa 32 miliardi di euro e una media di 129mila euro per impresa. «Il momento che le aziende italiane stanno attraversando è senza dubbio caratterizzato da una complessità straordinaria – conferma Lorenzo Tagliavanti, presidente di InfoCamere – e richiede una particolare attenzione sia da parte delle istituzioni che delle associazioni imprenditoriali».
A rendere meno drammatica la situazione è il consolidamento finanziario delle aziende. «La percentuale delle imprese che registrano una perdita rispetto al totale delle imprese che depositano il bilancio – aggiunge Tagliavanti – si è attestata attorno al 33,9% nel triennio 2019-2021, rispetto a un valore prossimo al 44,1% nel triennio 2009-2011». Insomma, le imprese in perdita sono sempre meno. È altrettanto vero, però, che i numeri restano alti, con circa un’impresa su tre che ha i bilanci in rosso. Nel 2019 le aziende che hanno fatto registrare perdite di esercizio erano circa 367mila. Dopo un brusco aumento nei due anni del Covid, nel 2022 la cifra è scesa a 250mila. Un trend incoraggiante, ma che testimonia anche la presenza di molte imprese in stato di difficoltà.
I dati settore per settore
I dati elaborati da InfoCamere per Open mostrano che questa situazione riguarda tutti i principali settori dell’economia italiana. Le aziende attive nel manifatturiero, per esempio, hanno accumulato tra il 2020 e il 2022 perdite complessive per 38 miliardi di euro. Un discorso simile vale anche per il trasporto e il magazzinaggio. Qui le aziende che hanno chiuso con i bilanci in rosso sono passate dalle 9.300 del 2019 alle 5.700 del 2022, ma le perdite complessive del settore negli anni del Covid superano i 10 miliardi. Per il commercio all’ingrosso e al dettaglio le imprese in difficoltà sono pure aumentate. Dal 2019 al 2022 sono circa 3mila in più quelle che hanno chiuso l’ultimo esercizio commerciale con il segno meno. E anche in questo caso le perdite complessive sono piuttosto rilevanti: 4,4 miliardi nel 2020, 2,3 miliardi nel 2021 e 1,4 miliardi nel 2022. Non va meglio alla categoria «Attività dei servizi di alloggio e ristorazione»: le aziende che hanno chiuso il 2022 in rosso sono circa 75mila – 11mila in più del 2019 – e le perdite complessive del settore per gli ultimi tre anni sono di 9 miliardi. Tutti questi dati non sono certo sufficienti a preannunciare una catastrofe economica. Eppure, ciò che balza all’occhio è che ci sono ancora molte aziende che non sono riuscite a recuperare del tutto i debiti contratti negli anni della pandemia. Di conseguenza, il rischio di ritrovarsi con un buco nelle casse dello Stato c’è eccome. Resta solo da capire se e quando quel rischio si concretizzerà.
Commenti
LUCIANO CAPONE 16 OTT 2023 ilfoglio.it
Tagli temporanei delle tasse in deficit a fronte di aumenti della spesa strutturali: una legge di Bilancio senza visione. Giorgetti ha frenato i ministri a Roma, soprattutto sulle pensioni, ma dovrà convincere i suoi colleghi in Europa
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È vero che mancano le risorse, ma quello è un vincolo di realtà. Il problema politico è che manca una visione di politica economica. Si diceva che questa per il 2024 doveva essere la prima “vera” legge di Bilancio del governo Meloni, con un respiro politico e di legislatura, dato che quella per il 2023 era stata fatta di fretta e solo per tamponare le emergenze. In realtà, le due leggi di Bilancio sono molto simili per impostazione e per uno sguardo a breve termine. Da un lato il governo cerca di contenere il disavanzo senza entrare in contrasto con Bruxelles, dall’altro cerca di usare tutti i margini disponibili in deficit per fare spesa. Lo scorso anno, il governo impegnò 21 miliardi su 34 totali (circa il 60 per cento) per gli aiuti a imprese e famiglie contro il caro energia; quest’anno impegna 14,5 miliardi su 24 totali (circa il 60 per cento) per il taglio del cuneo fiscale. Sempre per un anno
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