È morto Giorgio Napolitano, il comunista europeista

Aveva 98 anni. Dalla militanza nel Pci al distacco dall'Urss. Fino alla scelta del governo Monti e il doppio mandato da presidente della Repubblica. Di sé diceva: "La mia storia non è rimasta uguale al punto di partenza"

SERGIO SOAVE 22 SET 2023ilfoglio.it lettura4’

Èmorto a 98 anni Giorgio Napolitano. Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha lasciato un segno rilevante nella storia politica, non soltanto durante il periodo in cui ha ricoperto la massima carica istituzionale. Napolitano è stato un comunista e la sua parabola politica più rilevante si è svolta proprio nella fase di declino e poi di scioglimento dell’Unione Sovietica. Questo rende particolarmente interessante esaminare l’evoluzione del suo rapporto con il Comunismo in generale, col Pci in particolare. La sua adesione giovanile fu priva di qualsiasi remora: nella Napoli del dopoguerra i problemi sociali e la resistenza nei confronti delle vigenze monarchiche (in una città che aveva dato l’ottanta per cento di voti alla monarchia) prevalgono sulle questioni internazionali. D’altra parte anche nel 1956, durante il dibattito sull’invasione sovietica dell’Ungheria, Napolitano si schiera con nettezza contro i dissidenti e arriva a sostenere, in polemica con Antonio Giolitti, che quell’intervento militare ha, addirittura, contribuito a “salvare la pace”.

Come segretario della federazione di Napoli del partito entrò in rapporto con le personalità più rilevanti, da Emilio Sereni a Giorgio Amendola, esponenti di una tendenza che si caratterizzava per la ricerca di rapporti con il Psi, pur mantenendo una ferrea fedeltà all’Unione Sovietica.

La sua “carriera” nel Pci sembra inarrestabile quando, sotto la segreteria di Luigi Longo, assume gli incarichi di coordinatore della segreteria e dell’ufficio politico, il che sembra indicarlo come il maggiore candidato ad assumer eil ruolo di vice-segretario, che invece viene assegnato a Enrico Berlinguer. Probabilmente quello che spinge l’anziano leader a questa scelta è il movimento studentesco del ’68 seguito dal risveglio unitario di quello operaio negli anni successivi. Berlinguer appare più capace di trovare una sintonia con questi movimenti, mentre la tendenza a tenere aperto il rapporto con i socialisti sembra un vicolo cieco a causa della unificazione tra Psi e Psdi.

E’ in questo periodo che si cominciano ad avvertire anche all’esterno, nonostante le regole del centralismo democratico, le tensioni tra l’ala “amendoliana” e quella “ingraiana” del Pci, che aveva subìto una scissione da parte del gruppo del Manifesto, esplicitamente polemico con l’Urss da posizioni di sinistra. Napolitano non ha esitazioni nel condannare il Manifesto, e mantiene un atteggiamento ancora filosovietico: nel 1974 stila una nota interna di condanna di Aleksandr Solgenitzyn e, quando lo scrittore dissidente viene esiliato scrive articoli in cui definisce “aberranti” le sue opinioni. Il distacco dall’Urss di Napolitano si avvera solo con l’intervento russo in Afghanistan (sul quale si differenzia dall’opinione di Amendola che, non infondatamente, pensava che i fondamentalisti afghani non lottavano contro il socialismo ma contro la secolarizzazione).

Uno dei temi che hanno caratterizzato da allora in poi l’azione di Napolitano è stato l’europeismo, anche perché su scala continentale era più credibile una convergenza o addirittura una confluenza nel filone socialdemocratico e laburista, il d’alternativa alla asfittica prospettiva dell’eurocomunismo sostenuta da Enrico Berlinguer. In sostanza l’aspirazione a far entrare il Pci, e poi i partiti che ne derivarono, nella famiglia del socialismo europeo è l’elemento più costante nelle riflessioni nelle battaglie di Napolitano, un percorso che alla fine si è compiuto ma attraverso un percorso assai contrastato e disseminato anche di virulenti attacchi a chi lo sosteneva.

Con lo scioglimento dell’Urss sembrava che questa prospettiva fosse ovvia per tutti, ma le tensioni domestiche tra Berlinguer e Bettino Craxi avevano creato un clima di ostilità che sopravvisse anche al dirigente sardo. A ciò si aggiunse Tangentopoli, situazione critica per i partiti della prima repubblica, che Napolitano si trovò ad affrontare da presidente della Camera dei deputati. Da allora in poi ricoprì rilevanti cariche istituzionali, ministro dell’Interno nel primo governo di Romano Prodi, poi presidente della commissione Affari Istituzionali del Parlamento europeo, senatore a vita per nomina del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

L’anno dopo viene eletto Capo dello stato, il primo ex comunista ad ottenere questa carica, e deve affrontare le varie crisi che si susseguono durante il suo primo mandato. Dopo le dimissioni di Romano Prodi, tenta di rinviarlo alle Camere, poi affida un incarico esplorativo all’ex segretario della Cisl Franco Marini, e solo dopo tutti questi tentativi si rassegna a indire nuove elezioni, che saranno vinte dalla coalizione di centrodestra guidata da Silvio Berlusconi. La riluttanza di Napolitano a sciogliere le Camere e a dare all’elettorato il compito di esprimere gli equilibri politici si è ripetuta nel 2011 in occasione delle difficoltà del governo Berlusconi. In quell’occasione Napolitano ha operato la scelta istituzionale e politica probabilmente più rilevante e più controversa della sua lunga vicenda. Indebolito dalle tensioni interne della sua maggioranza e dall’attacco dei leader francese e tedesco, che come ha scritto Nicolas Sarkozy recentemente, avevano deciso di “sacrificare” Berlusconi, Napolitano gli ha chiesto di dimettersi appena approvata la legge di bilancio e poi ha nominato il professor Mario Monti, che aveva nominato senatore a vita pochi giorni prima, presidente del Consiglio dei ministri.

Non è facile esaminare il valore di quella scelta cruciale, le cui conseguenze si sono poi prolungate per un lungo periodo della storia repubblicana: nell’immediato a molti (compreso chi scrive) parve che con quella scelta Napolitano avesse “salvato l’Italia”, in preda a una situazione dei mercati internazionali che aveva aumentato moltissimo il costo del servizio al debito pubblico. Ora, col senno di poi, assumono rilievo le critiche di chi pensa che in quel modo si sia accettata una specie di “commissariamento” della democrazia italiana da parte dei partner europei più influenti, che si sia dato inizio a una fase confusa di coalizioni grandi e disomogenee che hanno sostenuto governi deboli e contraddittori, con scarsa capacità di far valere gli interessi nazionali e che hanno creato le condizioni per un estesissimo voto di protesta, abilmente raccolto da Beppe Grillo. In effetti i risultati del governo Monti e poi dei quelli che, sotto la presidenza poi rinnovata di Napolitano, lo hanno seguito, quelli di Enrico Letta e di Matteo Renzi, non hanno lasciato un buon ricordo.

La forte convinzione europeista di Napolitano lo ha forse indotto a sottovalutare i rischi di una subalternità dell’Italia, la sua preoccupazione per la continuità istituzionale forse lo ha spinto a cercare qualsiasi strada (ovviamente legittima) per evitare o procrastinare lo scioglimento delle Camere.

Come si è detto, alla scadenza del suo mandato, Napolitano è stato costretto ad accettarne un altro, primo caso nella storia repubblicana, per l’impossibilità di trovare in Parlamento il consenso necessario per l’elezione del suo successore. Napolitano condizionò l’accettazione del secondo mandato all’adozione di nuove norme che avrebbero reso più stabile la vita istituzionale, ma in realtà anche in questo campo non è cambiato un granché. Dimessosi nel 2015, quando si erano create le condizioni per l’elezione di un suo successore, Sergio Mattarella, Napolitano è diventato senatore a vita di diritto. Non ha aderito come tale al gruppo dei Democratici di sinistra, ma a quello delle Autonomie, il che sembra mostrare una sua delusione per l’approdo finale delle diverse metamorfosi dell’antica militanza comunista, o forse soltanto la volontà di poter esprimere giudizi parlamentari non vincolati alla disciplina di gruppo.

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