FACCE DISPARI. Marino Niola: “L'Occidente la smetta con quest'insopportabile mea culpa”
- Dettagli
- Categoria: Italia
La versione dell'antropologo: "La follia del politicamente corretto ha inasprito le relazioni tra i generi, tra le persone e i popoli. Ciascuno si isola nei suoi diritti e desideri. E spesso scambia i desideri per diritti.
FRANCESCO PALMIERI 02 SET 2023ilfoglio lettura4’
Scordiamoci Cyrano, non è tempo di poeti spadaccini. Il bacio più famoso di quest’anno, del presidente della Federcalcio spagnola Luis Rubiales alla giocatrice Jenni Hermoso, è un apostrofo oscillante tra goliardia e gogna, tra l’euforia sportiva e l’esecrazione sociale, tra scherzo e drammone. Più che un avvocato ci vuole l’antropologo: Marino Niola ha firmato nel 2021 con Elisabetta Moro un volume intitolato ‘Baciarsi’ e non esita a dirsi “stufo della follia che avvolge l’Occidente”. Una posizione dispari rispetto all’accademia, che sfida la spada, o la bacchetta, di Damocle e la nouvelle encyclopédie talebana.
Baci a nervi scoperti.
O ennesima prova di idiozia del politicamente corretto, quello per cui le fiabe della Bella addormentata e di Biancaneve vanno censurate perché il principe è uno stalker. Non entro nel caso specifico ma stiamo attenti a derive che sorgono da istanze giuste e finiscono nelle aberrazioni, per cui qualsiasi manifestazione viene letta in forma aggressiva e violenta. Poveri nonni.
I nonni?
Ricorda quando strapazzavano i bambini di baci e pizzicotti? Sarebbero dunque passibili di molestie. La follia del politicamente corretto nata nelle università statunitensi ha inasprito le relazioni tra i generi, tra le persone e i popoli. È doloroso che l’Europa assuma in modo acritico modelli esterni e non si renda conto che è una forma di colonizzazione. O di autocolonizzazione.
È un fatto tuttavia che i costumi mutino col tempo.
Senza dubbio: quando finirono gli anni di piombo, il deprecato decennio degli Ottanta non portò solo disimpegno ma nuove forme di presenza sociale, che nascevano all’interno della nostra cultura, non fuori. Non minavano il tessuto collettivo. Ora invece c’è un’atomizzazione sociale, una progressiva solitudine: non tramontano solo i partiti ma anche le tradizionali forme di vicinato faticano a sopravvivere. Ciascuno si isola nei suoi diritti e desideri. E spesso scambia i desideri per diritti.
È l’opinione di un conservatore?
O di un antropologo che ragiona a freddo. Però conservatore è una parola che non ho mai temuto, la cultura conservatrice ha una grandissima dignità nella storia europea. Anche il mio maestro Lévi-Strauss, malgrado fosse iscritto al partito socialista, fu bollato come conservatore perché detestava le fughe in avanti e riteneva il Sessantotto all’origine di quasi tutti i mali di Francia e d’Europa. Quando pubblicò ‘Tristi tropici’ già intravedeva i rischi dell’islamismo radicale. Si preoccupò per la fondazione del Pakistan e lo minacciarono di morte.
L’Europa deve pur fare i conti con il suo passato.
Una cosa è questa, altra è arrivare a biasimare le battute di ‘Totò le Mokò’. Il mea culpa costante è diventato insopportabile, è più una voglia di autoannientamento che un’istanza di libertà. Siamo tutti contrari al colonialismo che consegnava certi popoli a un triste destino, ma con la decolonizzazione cosa è successo? Sempre colpa dell’Occidente o le élite interne di quei Paesi hanno pesanti responsabilità? La storia, già se pensiamo ai greci, è fatta di invasioni, colonizzazioni e successive integrazioni. Non si può vivere nel culto dell’espiazione. Quando Oriana Fallaci pubblicò il suo libro dopo l’11 settembre la criticai anch’io perché era troppo rabbiosa, tradiva la paura di una persona che leggeva le vicende attraverso la sua fragilità. Eppure affermò cose fondamentali, che dovremmo avere il coraggio di ripetere. Ricordo che i diritti umani sono stati inventati in Occidente, e che in certe culture cui guardiamo, le donne non sono potute andare a scuola.
Si va verso la caccia alle streghe o verso una nuova quadratura dei valori?
La storia è un pendolo e mi auguro si vada verso un punto di equilibrio, anche perché certi flussi ne suscitano di uguali e contrari. Una delle ragioni per cui Trump vinse le elezioni fu proprio l’irrigidimento di una parte del Paese, che si difendeva dagli eccessi opposti. Da noi la posizione di un Vannacci, rimedio peggiore del male, è sintomo di una reazione che già fermenta nella sensibilità collettiva. Alberoni lo avrebbe definito “fenomeno allo stato nascente”. Si sviluppa con fluidità nei movimenti, non nei partiti, i quali per propria natura tradiscono le ragioni che li fondano.
Una volta si guardava alla cultura giovanile per orientare la bussola.
L’accusa di essere patriarcali, che fa parte del pacchetto genere-generazione, ha provocato effetti ferali sulla compagine sociale. L’apartheid generazionale riduce l’intelligenza collettiva, che è sinergia di competenze e di esperienze. La scuola poi asseconda gli istinti più bassi pur di essere popolare, come se dovesse badare ai sondaggi. Prima la negligenza portava alla bocciatura, ora è trattata come malattia da curare, ma quando una società ha troppi psicologi non è buon segno. La scuola non giudica più, non si ciba di pensieri ma di pensierini e l’università non è da meno. Ai ciucci farà piacere, ma il risultato è che si rimpiccioliscono le menti.
A proposito di cibo: è l’argomento del suo ultimo libro.
Anche il cibo da elemento di convivialità sta diventando un fenomeno di tribalizzazione divisivo. Gruppi che come tante cittadelle assediate difendono la propria identità. Negli Usa le scelte alimentari sono persino causa di divorzio: se rifiuti un cibo rifiuti chi lo mangia. Se si fa un invito a cena c’è il rischio che qualcuno si porti la vaschetta con le sue pietanze.
Le è capitato?
No, se succede lo caccio.