Se gli imprenditori non hanno fiducia nel futuro: quella catena che si spezza e la necessità di investimenti pubblici
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Soltanto in una scienza sociale come l’economia accade che le aspettative, cioè le previsioni stesse degli operatori economici su come andrà l’economia, abbiano effetti oggi sulle scelte economiche di questi operatori
Riccardo Puglisi — 31 Agosto 2023 ilriformista.it lettura3’
A ulteriore conferma del fatto che la crescita dell’economia italiana nel 2023 potrebbe essere piuttosto fiacca è arrivato ieri l’ultimo dato di agosto sulla fiducia di consumatori e imprese. Detto in breve: se l’indice di fiducia dei consumatori è leggermente calato da 106,7 a 106,5 (qualcuno lo definirebbe non a torto pressoché stabile) dall’altro lato il corrispondente indice di fiducia per le imprese è sceso sensibilmente dal valore di 108,9 di luglio a 106,8 in agosto. Come mai questo indicatore è particolarmente rilevante per prevedere l’andamento dell’economia nei restanti mesi del 2023? Ciò è dovuto al fatto che gli imprenditori intervistati ragionano e cercano di prevedere l’andamento delle proprie vendite – e delle vendite in generale – nel periodo successivo, ma nel contempo le loro valutazioni ci dicono qualcosa sulla loro futura volontà di effettuare nuovi investimenti, soprattutto in impianti e macchinari.
Qui si mostrano due degli aspetti più affascinanti, interessanti e talora crudeli dell’economia, intesa come scienza sociale. In primo luogo, soltanto in una scienza sociale come l’economia accade che le aspettative, cioè le previsioni stesse degli operatori economici su come andrà l’economia, abbiano effetti oggi sulle scelte economiche di questi operatori (un imprenditore ha meno voglia di fare investimenti se si aspetta che la domanda futura per ciò che produce sarà stagnante).
E a loro volta queste aspettative avranno effetti sugli altri operatori che si basano nelle loro scelte sulle aspettative formulate da operatori rilevanti: se mi accorgo che gli imprenditori che vendono ai consumatori finali hanno aspettative depresse, allora io imprenditore che vende impianti e macchinari avrò meno voglia di investire e acquistare quei peculiari impianti e macchinari che servono per produrre impianti e macchinari. In secondo luogo, gli investimenti rivestono una duplice posizione nel funzionamento di un’economia di mercato, in quanto vi saranno ovviamente imprese che producono quegli impianti e macchinari ma dal lato della domanda non vi sono le famiglie (le quali acquistano beni di consumo) ma per l’appunto le imprese che acquistano “beni capitale”.
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Lungi da me l’avere posizioni eccessivamente keynesiane, ma si dà il caso che nei momenti in cui l’economia viene rallentata o depressa da insufficienti investimenti privati da parte delle imprese, un intervento pubblico sensato consiste nel rimpiazzare e/o far ripartire tali investimenti privati attraverso un potenziamento degli investimenti pubblici, ad esempio in infrastrutture.
E qui dobbiamo purtroppo confrontarci con un problema strutturale nell’azione di finanza pubblica dello stato italiano: gli investimenti pubblici restano sacrificati se la spesa pubblica corrente risulta eccessiva e inefficiente. Intendiamoci: la spesa pubblica corrente è in larga parte indirizzata al mantenimento e consolidamento della più potente invenzione economica del secolo scorso, cioè lo stato sociale (pensioni, sanità, istruzione, sussidi contro la disoccupazione), ma ciò non implica che tutta la spesa corrente sia efficiente e giustificabile, di fronte al fatto che essa viene finanziata in ultima istanza dai pagatori di imposte, ovvero dai cittadini stessi.
Se la spesa pubblica corrente è eccessiva e inefficiente – e non si vuole spremere ulteriormente i pagatori di tasse – allora non lamentiamoci che non vi sia spazio per investimenti pubblici a sostegno dell’economia quando le aspettative degli imprenditori peggiorano stabilmente.
Riccardo Puglisi