A proposito del caso Vannacci – Il grande boomerang

Per un sociologo come me il caso Vannacci è estremamente interessante. illustra in modo plastico uno dei concetti chiave della sociologia: quello di conseguenze non intese.

26 Agosto 2023 - di Luca Ricolfi fondazionehume.it lettura4’

Per un sociologo come me il caso Vannacci è estremamente interessante. Esso infatti illustra in modo plastico uno dei concetti chiave della sociologia: quello di conseguenze non intese (o non volute) dell’azione sociale (una variante moderna del concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini”). Introdotto da Robert Merton fin dagli anni ’30, ripreso e sviluppato da Raymond Boudon negli anni ’70 con la sua teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale, il concetto si riferisce a quelle situazioni nelle quali un’azione, concepita in vista di un certo fine, produce risultati diversi – quando non opposti – rispetto a quelli desiderati.

Nel caso Vannacci è andata così. Il 10 agosto il libro, autopubblicato e acquistabile su Amazon, esce senza particolare clamore. Dopo qualche giorno, però, numerosi media progressisti mettono in atto una delle pratiche meno scientifiche (e meno professionali) del mondo dell’informazione: individuato come nemico un determinato testo, lo si sottopone a una sorta di Tac, o meglio scintigrafia (esame accuratissimo, in grado di individuare le minime anomalie) per isolarne i passaggi più scottanti e discutibili; identificati tali passaggi, li si estrae dal contesto, li si ritocca un po’, e li si dà in pasto all’opinione pubblica, trascurando del tutto le argomentazioni (spesso assai articolate) del libro; dopodiché, incuranti della pubblicità gratuita che così si offre al testo incriminato, si dà inizio alla lapidazione del suo autore, che per giorni e giorni prosegue sulla carta stampata, sui social e in tv.

Risultato: il libro, anziché suscitare l’attesa ondata di indignazione nell’opinione pubblica, balza in testa alla classifica dei libri più venduti, posizionandosi davanti ai libri di Michela Murgia che, anche in seguito alla commozione per la morte della scrittrice, stavano ampiamente dominando le classifiche. Le prime stime suggeriscono che, grazie alla solerte vigilanza dei media progressisti, il generale Vannacci abbia venduto oltre 25 mila copie, con un guadagno di almeno 200 mila euro.

E non è tutto. La immediata reazione delle autorità militari e del ministro della Difesa, che rimuovono il Generale dal suo incarico e avviano un’azione disciplinare, pone le basi per farne un eroe nazionale, o meglio una sorta di “profeta armato” della parte più conservatrice del Paese. In breve: un’azione concepita per screditare un autore, un libro, una concezione del mondo, produce effetti opposti a quelli desiderati, in perfetto accordo con la teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale.

Questa però non è l’unica ragione per cui il caso Vannacci è interessante. Al di là del merito (per pronunciarmi aspetto di aver letto tutto il libro), la questione che si pone è quella dei limiti della libertà di espressione. In quali casi si possono punire le persone per le loro idee? E soprattutto: chi è titolato a punire? Solo la magistratura, o anche i superiori gerarchici di chi esprime idee inaccettabili? E inaccettabili per chi?

Come si vede, è un bel guazzabuglio. E che la questione sia ingarbugliata lo segnala il fatto che, a difesa del generale Vannacci, sono scesi in campo non soltanto esponenti politici di destra, ma anche personalità dell’area progressista: Piero Sansonetti, direttore dell’Unità; Antonio Padellaro, tra i fondatori del Fatto Quotidiano; Enrico Mentana, Direttore del TG La 7; Elisabetta Trenta, ex ministro della difesa durante il primo governo Conte; Marco Rizzo, presidente onorario del Partito Comunista.

Insomma, la questione è davvero aperta e controversa. Quello che la rende tale, a mio parere, è soprattutto una circostanza: l’intervento contro il Generale Vannacci si basa sì sui contenuti del suo libro (definiti “deliranti”, o “farneticanti”), ma non poggia sulla individuazione di alcun reato, né di opinione né di altro tipo, connesso alle idee ivi espresse.

Il punto è importante perché la Costituzione, dopo aver enunciato il principio della libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21), è piuttosto precisa nell’indicare i casi nei quali il principio può essere sospeso, a tutela di altri principi che con esso possono confliggere. I casi principali sono l’offesa al buon costume (menzionato nell’articolo 21) e la commissione di un ben circoscritto insieme di reati: minaccia, vilipendio, istigazione a delinquere, calunnia, diffamazione, ingiuria (dal 2016 declassata da reato penale a illecito civile).

Dunque, quello cui ci troviamo di fronte, in questo come in numerosi casi consimili nelle aziende, nelle università, negli apparati pubblici, è un intervento contro la libertà di manifestazione del pensiero che non viene esercitato in sede penale o civile, ma su base per così dire amministrativa, semplicemente lungo la catena di comando di una istituzione. Si punisce, si sospende, si multa, si traferisce, si licenzia un dipendente non perché il suo comportamento sul lavoro va contro una policy, un regolamento, un codice etico, ma perché – al di fuori del lavoro – ha espresso un pensiero che non integra alcun reato ma dai superiori è ritenuto incompatibile con la sua posizione nell’istituzione.

È ragionevole? Forse sì, forse no, ma penso che non possiamo sottrarci alla domanda.

Commenti   

#1 walter 2023-08-26 18:49
Le ipotesi sulle simpatie filo russe del generale “contro” Vannacci. E la sua caduta rafforza il nome di Cavo Dragone alla Nato
26 AGOSTO 2023 - 17:28 di Sara Menafra em.online lettura1’


Il generale Roberto Vannacci grazie al suo bestseller continua a far parlare di se, con dichiarazioni e interviste praticamente quotidiane. Ma mentre il caso non accenna a sgonfiarsi si aggiungono dettagli circa il suo ruolo all’interno delle alte sfere delle Forze armate e delle conseguenze della sua caduta (anche se il procedimento disciplinare dovesse ipoteticamente concludersi con un nulla di fatto la carriera di altissimo livello è comunque bruciata). Questa mattina, la ricostruzione fatta da Bruno Vespa sulle pagine del Quotidiano Nazionale in certi ambienti non è passata inosservata. Il giornalista scrive infatti che Vannacci era sì caduto in disgrazia prima del libro e che pesavano gli scontri con il capo di stato maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone, ma non a proposito dell’uranio impoverito come dicono i suoi sostenitori. Vannacci, soprattutto, si sarebbe mostrato troppo aperto alle richieste russe nel periodo in cui è stato addetto militare a Mosca. Scrive il conduttore di Porta a porta: «Un uomo con il curriculum di Vannacci non viene congelato all’Istituto geografico militare senza una ragione precisa. E la ragione sta nelle posizioni estremamente favorevoli a Putin maturate nel periodo in cui è stato detto militare a Mosca, dal febbraio 2021. Incarico delicatissimo anche perché coinciso con l’aggressione russa all’Ucraina un anno dopo. Quindi, conclude il giornalista, «E’ stata questa posizione a bruciare la brillantissima carriera di Vannacci: una nazione Nato esposta come la nostra in favore dell’Ucraina non può avere un alto livello militare con ambiguità di questo genere».
Nessuno dalla Difesa si azzarda a commentare la versione dei fatti

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