A volte rimangono. Il fantastico gattopardismo degli intramontabili capicorrente del Pd alla prova di un nuovo congresso

Il gruppo dirigente è composto da un’Assemblea eletta con Zingaretti (al 66 per cento) e da parlamentari scelti da Letta (sappiamo come). Dove si annida per Schlein questo vecchio apparato da cambiare,
Francesco Cundari 1.2.2023 linkiesta.it lettura2’

acclarato che non può trattarsi né dell’ultimo segretario né del penultimo, né di Franceschini, né di Orlando, né di Bettini…?
Con le dichiarazioni pronunciate da Nicola Zingaretti durante un’iniziativa a sostegno di Elly Schlein le posizioni di tutti i principali dirigenti del Partito democratico sono ormai definite.

Queste le parole dell’ex segretario a proposito della candidata, che riprendo dal Corriere della sera di ieri: «Solo lei ha il coraggio di cambiare. La mia denuncia, dopo le dimissioni, non era uno scatto di nervi, era un grido d’allarme. E purtroppo quanto è accaduto, anche dopo il 25 settembre, dimostra che il gruppo dirigente del Pd non ha avuto il coraggio di dare una risposta alla crisi del partito».

Un ingenuo potrebbe domandarsi a questo punto con chi ce l’abbia Zingaretti, considerato che l’Assemblea nazionale (massimo organo dirigente del partito, che nomina a cascata tutti gli altri) è stato eletto nel 2019 proprio con lui, che ne ha legittimamente conquistato il 66 per cento.

Un lettore poco avvezzo alle sottigliezze del dibattito interno al Pd potrebbe interrogarsi a lungo intorno a questo problema, considerando oltre tutto che all’indomani delle sue dimissioni – occasione in cui tra l’altro dichiarò di vergognarsi del suo partito, e pure qui sarebbe lecito domandarsi a chi mai si riferisse, ma ora non divaghiamo – quella stessa assemblea ha eletto, su indicazione del medesimo Zingaretti, anche il suo successore, Enrico Letta.

Un lettore particolarmente ostinato potrebbe quindi pensare al gruppo parlamentare, ma farebbe presto a scoprire che gli attuali gruppi parlamentari sono frutto delle liste fatte dal summenzionato Letta, il quale peraltro ha voluto aprirle, sotto la sigla «Pd – Italia democratica e progressista», non solo agli ex nonché futuri compagni di Articolo 1, ma anche all’ex nonché attuale compagna Schlein, promossa in tutte le sedi, le occasioni e le televisioni disponibili come volto nuovo del partito, frutto principale delle celeberrime «agorà democratiche», punta di diamante della squadra schierata in campagna elettorale.

Come se non bastasse, nel fronte del rinnovamento a sostegno di Schlein e contro le resistenze del vecchio gruppo dirigente, figurano nomi del calibro di Dario Franceschini, Andrea Orlando, Goffredo Bettini (il quale a dire il vero, come del resto anche Letta, ripete spesso di non volersi schierare, ma ha avuto per Schlein parole di apprezzamento inequivoche).

Qual è dunque questo gruppo dirigente che Schlein e i suoi sostenitori vogliono cambiare, chi sono i responsabili di tutti gli errori che la candidata intende correggere, dove si annidano gli infidi capicorrente che vorrebbero resistere alla sua rivoluzione?

Sono domande lecite, ma anche ingenue, almeno per chi abbia qualche esperienza della politica italiana e dell’Italia in generale, o abbia anche solo fatto le medie nel nostro paese.

Anzi, si potrebbe dire che proprio con una simile, compatta presa di posizione, schierandosi con Schlein in nome del cambiamento, il gruppo dirigente alla guida del Pd dal 2019 ha dimostrato di sapere interpretare più che mai il carattere nazionale, sempre vivo e sempre attuale, dagli aristocratici rivoluzionari del Gattopardo ai banchieri, manager e direttori di giornale anti-casta dei tempi più recenti.

C’è poco da aggiungere. Il vero Partito della Nazione, alla fine, l’hanno fatto loro.

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