1-Contrordine dagli Usa sulla caduta di Draghi: "Vince la democrazia" Il "New York Times" rettifica il tiro dopo gli allarmi sul "futuro tetro dell'Italia"
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-2 A cena con Meloni: l'establishment romano alla corte della leader di FdI Il compleanno di Rotondi diventa la festa con cui Roma si presenta alla Predestinata. Dirigenti pubblici, avvocati, prefetti, generali e generone. Ma lei si apparta con Panetta
Merlo ilfoglio.it e Marco Gervasoni 28.7.2022 ilgiornale.it lett5’
1-La grande differenza tra il giornalismo statunitense e quello dell'Europa, soprattutto latina, è che non vi può esistere un giornale-partito. Anche quando un quotidiano adotta una linea molto radicale e persino settaria, lascia comunque spazio, sulle sue colonne, a opinioni che la contrastino. Cosi un giornale diventato molto di sinistra, e assolutamente anti-trumpiano, come il «New York Times», ospita alcuni editorialisti conservatori, persino vicini all'ex presidente - anche se nello spazio «Guest», cioè ospiti.
È il caso di Cristopher Caldwell, pregevole saggista conservatore, autore di diversi libri, collaboratore fisso del giornale e anche un po' conoscitore dell'Italia. Caldwell contesta implicitamente un altro «Guest», di qualche giorno fa, David Broder, che aveva dipinto un'Italia pronta a cadere, un secolo dopo, di nuovo sotto il tallone fascista. Nessun fascismo, replica implicitamente Caldwell, solo il risultato delle scelte degli elettori italiani, se il voto confermerà i sondaggi. Ma soprattutto, il saggista contesta un report di J P. Morgan, secondo il quale Draghi sarebbe stato abbattuto da un «colpo populista». Ma quale era, si chiede Caldwell, la credibilità di Draghi? In una democrazia, scrive l'autore «la credibilità si ottiene attraverso un mandato popolare». Quello che Draghi non ha mai cercato. Al contrario, il mandato lo possedevano le forze politiche che, legittimamente secondo Caldwell, hanno privato di fiducia l'esecutivo. Fin qui il commento del giornale newyorchese.
Che ci spinge ad alcune considerazioni. La prima, che non bisogna confondere un articolo di giornale con la posizione ufficiale del quotidiano, né tantomeno credere che essa rifletta in qualche sorta le opinioni del governo americano. Quando si scrive: «L'America ha paura di Giorgia Meloni» e poi si cita un pezzo di David Broder, si compie un'operazione truffaldina. Allo stesso modo, sarebbe sbagliato ora vedere nel commento di Caldwell come il segnale di chissà cosa: è la democrazia pluralista del giornalismo, che negli Stati Uniti per fortuna funziona ancora.
La seconda considerazione riguarda la cultura politica statunitense. Sia democratico o repubblicano, nessun americano riuscirebbe a concepire l'idea di un governo guidato da una personalità che non sia stata, prima selezionata attraverso primarie, poi eventualmente eletta dall'intero corpo elettorale. Vale per i sindaci, per i governatori degli Stati, per i parlamentari, per il presidente della Repubblica, e anche per certe figure di magistrati. Per questo non mi ha sorpreso leggere ieri mattina questo pezzo, critico nei confronti non tanto di Draghi, quanto dell'idea di governo non elettivo. E se Caldwell, vicino a Trump, calca la mano, descrivendo un Draghi succube della Ue, qualsiasi democratico o liberal statunitense condividerebbe il principio che la legittimità politica deriva dal voto.
Più discutibile quello che scrive Caldwell sulla credibilità: aver vinto le elezioni non la conferisce ipso facto, perché, lo sappiamo da Platone, il crinale tra democrazia e demagogia è sempre molto sottile - e il caso Trump è di scuola.
L'ultima considerazione: Draghi, molto legato alla cultura politica statunitense, probabilmente condivide l'idea che la sua esperienza, pur cosi importante e preziosa, sia stata un'anomalia. Ora ce lo ricorda pure il «New York Times»; lasciamo quindi che siano gli elettori a decidere e poi, nel caso, opponiamoci duramente al vincitore. Ma non più governi tecnici, la vera tara storica del nostro paese.
-2 A cena con Meloni: l'establishment romano alla corte della leader di FdI
SALVATORE MERLO 28 LUG 2022
Il compleanno di Rotondi diventa la festa con cui Roma si presenta alla Predestinata. Dirigenti pubblici, avvocati, prefetti, generali e generone. Ma lei si apparta con Panetta
Casina di Macchia Madama. Sono le 21 e 30 di martedì 26 luglio. E’ il compleanno di Gianfranco Rotondi. Circa duecento invitati. C’è quasi tutto l’establishment romano. Due figure si appartano. Un uomo e una donna. Lui in completo scuro, brevilineo, compatto, una versione forse meno algida di Mario Draghi, è ripiegato verso di lei come nello sforzo di esprimere un che di complicato, di preoccupante o forse addirittura di indicibile. Molti pensano che sarà il prossimo governatore della Banca d’Italia. Lei invece è vestita di bianco, i capelli legati, i pendenti dorati alle orecchie. Ascolta, corruga la fronte, mentre sul suo volto si legge un’attenzione tenace, famelica, combattiva. E’ la donna di cui tutti ormai dicono la stessa cosa: “Ecco il prossimo presidente del Consiglio”. Sono seduti l’uno di fronte all’altra, Fabio Panetta e Giorgia Meloni, l’unico italiano nel Comitato esecutivo della Bce, l’ex direttore generale di Bankitalia, e la signora del centrodestra. Lui le sta illustrando “la situazione”, per così dire. Il contesto. Quello che forse potrebbe trovarsi lei a dover gestire, tra qualche mese, da Palazzo Chigi. L’economia dell’euro, la politica finanziaria e monetaria, l’inflazione, lo scudo antispread, le politiche di austerity che forse tornano a fare capolino, le preoccupazioni di Bruxelles e Francoforte sulla tenuta italiana. Le tensioni sul debito pubblico. A breve. Brevissimo. Perché la campagna elettorale è soltanto una parentesi irreale. Un tempo sospeso. Si vince, sì, forse. Ma poi si deve governare. Ed è così che si estende, di fronte alla leader della destra italiana, alla Predestinata, il quasi sconfinato oceano da cui sorgono le bufere e i miraggi. E infatti distoglie lo sguardo per un attimo, Giorgia Meloni, come a voler afferrare un’ombra: è l’ignoto a cui furtivamente getta un’occhiata di ansiosa consapevolezza, quella che le fa subito dire: “Se vado al governo io metto in piedi una squadra stellare. Non voglio e non posso fallire”. Più distanti, per discrezione, ci sono anche alcuni degli uomini che la stanno aiutando nella compilazione del programma di governo. Raffaele Fitto, Giovanbattista Fazzolari, il capogruppo e cognato Francesco Lollobrigida. Pare che lei lo abbia detto senza mezzi termini a Matteo Salvini: “Nei programmi non voglio leggere stupidaggini o promesse irrealizzabili”. Chissà se è vero. Però è certamente vero che lei ha ancora negli occhi, e nelle orecchie, gli annunci roboanti, l’abolizione della povertà e la via della seta con la Cina, i viaggi a Mosca e la crisi diplomatica con la Francia, Quota 100, il caos, il dilettantismo e l’improvvisazione che Salvini mise in piedi con Luigi Di Maio e Giuseppe Conte nel 2018. Il governo del cambiamento. Un film dell’orrore. “Piuttosto mi ritiro a vita privata”. La speranza è nei numeri. Nei voti. Doppiare, triplicare quelli della Lega. Meglio correre da soli? Sì, ma se poi perdi perché ti sei separato da Salvini e Berlusconi poi la gente te la fa pagare. Ragionamento: gli elettori vogliono che vai da solo e che vai anche a governare, ma le due cose insieme non sono facili. Salvatore Merlo, ilfoglio.it
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