La crisi di governo. Intervista a Enrico Morando: “Conte illuso: pensa che rompendo torna al consenso iniziale”

La crisi di Governo e ciò che resta, se resta, del “campo largo” del centrosinistra evocato da Enrico Letta. Il Riformista ne discute con Enrico Morando, leader dell’area liberal del PD, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni

Umberto De Giovannangeli — 17.7. 2022 ilriformista.it lett5' 

Mario Draghi sale al Quirinale e rassegna le dimissioni. Il Capo dello Stato le respinge e “parlamentarizza” la crisi. Siamo al capolinea della legislatura?

La legislatura è al capolinea, almeno nel senso che la scelta irresponsabile di Conte e del M5S spezza le gambe al “miracolo“ Mattarella-Draghi, che era in grado di garantire un esito positivo alla legislatura più pazza della storia della Repubblica. E i miracoli non si ripetono: la scelta di rottura del M5S ha conseguenze irreversibili, per l’immediato e per il futuro. Altra cosa è la verifica, affidata alla valutazione del Presidente Mattarella, circa la possibilità di garantire al Paese – nei prossimi mesi – la gestione di dossier di enorme rilevanza prima di lasciare la parola alle urne.

Lei come spiega le mosse di Conte?

La crisi politica del M5S ha un’origine chiara: nato dal disprezzo e dal totale rifiuto di “quelli di prima”, il M5S si afferma elettoralmente su di una piattaforma antieuro e antiélite, che costituisce la base per la successiva collaborazione di governo con la Lega di Salvini, diversamente populista. Quando il principio di realtà travolge il Governo gialloverde, il M5S opera una vistosa correzione della sua posizione antieuropeista, vota per Ursula von der Leyen e si allea col Pd, conservando però una netta supremazia nella coalizione giallorossa. Il M5S, partito dal Vaffa… di Bologna, si ritrova prima a coltivare la nascita di un gruppo di “responsabili” in Parlamento (l’emblema della “casta“ autoreferenziale), e poi a diventare il partito di maggioranza relativa a sostegno del Governo Draghi. La difficoltà politica ed elettorale del M5S si spiega così: con l’abissale distanza tra le radici del suo pieno successo, nel 2018, e l’esito della sua concreta esperienza di gestione di quella straordinaria vittoria. Conte ha pensato che, tornando alle posizioni originarie – quindi, uscendo dal Governo – potessero tornare consenso e successi. Una non pia illusione.

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Una parte non residuale del Pd aveva puntato decisamente su Conte, addirittura come possibile “federatore” di un’alleanza strategica. Ed ora come la mettiamo?

C’è stata una fase nella quale il Pd ha pensato se stesso come junior partner di una “alleanza strategica“ col M5S. Poichè la definizione di questa “strategia“ è stata contemporanea alla crisi del Governo gialloverde e all’iniziativa per far nascere il Governo giallorosso, si è ingenerato subito un equivoco: la collaborazione di governo tra M5S e Pd era da considerarsi limitata nel tempo e nello spazio politico, oppure era il primo passo di una strategia politica di lungo periodo, fondata sul riconoscimento della leadership di Conte e della egemonia del M5S? Le frasi che lei ha ricordato nella domanda su Conte federatore e “riferimento del progressismo europeo“, la dicono lunga su quale fosse, in quel momento, la posizione prevalente tra i dirigenti del Pd. Era una posizione che definirei di statica rassegnazione ai rapporti di forza emersi dal voto; e all’ormai definitivo superamento del pur giovane bipolarismo. Con un gioco di parole, la vocazione maggioritaria del Pd veniva confusa con la “pretesa di autosufficienza“, al fine di poterla relegare tra le cianfrusaglie inutili: la sostanziale subalternità del partito riformista al “nuovo“ M5S, che abbandonava la pregiudiziale antieuropeista, è sembrata ai più un prezzo da pagare alla possibilità di tornare a partecipare al Governo del paese, anche aldilà delle emergenze di questa legislatura. Del resto, le scissioni subite a ripetizione e la crisi elettorale avevano indebolito il Pd oltre misura e lo “costringevano“ a ripensare alla sua stessa natura: non più casa comune dei riformisti, ma partner (e non il più grande) di una coalizione.

Cosa resta del “campo largo“ di Enrico Letta?

Il “campo largo” poteva essere concepito come una coalizione imperniata sul Pd, sul suo programma, sulla sua leadership e sul livello del suo consenso elettorale. La scelta di rottura operata dal M5S e il riequilibrio del rapporto di forza tra Pd e M5S – ormai giunto ad esiti inequivocabili -, creano le condizioni per l’affermazione di questa concezione della strategia del campo largo. Che queste condizioni vengano utilizzate, dipende a questo punto più dal Pd che da altri.

Nel motivare la sua uscita dal M5S, e la creazione di Insieme per l’Italia, Di Maio ha più volte insistito sul tema della guerra, accusando più volte Conte di fare il gioco di Putin minacciando la crisi di Governo.

La guerra scatenata da Putin ridisegna radicalmente il contesto in cui siamo chiamati ad operare: le enormi novità in corso (Finlandia e Svezia nella Nato) e in preparazione (Ucraina nella Unione Europea; l’Alleanza delle democrazie come essenziale protagonista di un nuovo ordine globale), ne sono testimonianza. Enrico Letta ha schierato il Pd su una posizione nettissima, a sostegno delle scelte del governo Draghi e della dura risposta euro-atlantica all’offensiva di Putin. È una perfetta dimostrazione di cosa io intenda quando parlo di un Pd che sappia egemonizzare il campo politico di cui fa parte, a vantaggio di tutto il Paese. Se è una verifica della capacità del Pd di recuperare la sua vocazione maggioritaria, il test può dirsi superato. Una visione chiara sulla collocazione internazionale del Paese e sui compiti che ne derivano. Un insieme di forze che la condividano e la alimentino con coerenza; una leadership autorevole, magari selezionata attraverso primarie aperte, cui partecipino milioni di elettori; un programma che parta dal Pnrr di Draghi e lo implementi attraverso riforme che consentano di sfruttarne appieno le potenzialità, coniugando crescita e riduzione della disuguaglianza. Per questa via, l’attuale rapporto di forza elettorale col centrodestra può essere rovesciato a favore del centrosinistra.

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