Solo loro ebbero un'idea chiara degli interessi e della collocazione dell'Italia nella Ue

La visione di Craxi e Andreotti Il processo venne interrotto e demolito con Tangentopoli

di Domenico Cacopardo 18.9.2018 www.italiaoggi.it

L'appuntamento europeo si avvicina a grandi passi e da noi e all'estero è in corso il gioco per il posizionamento dei partiti e dei personaggi che li dirigono. E, in quest'ottica, vanno viste le manovre in corso, con il neopopolarismo di Emmanuel Macron, la minaccia delle sanzioni a Vicktor Orbàn, e tutte le mosse identitarie che possono individuarsi nelle cronache dei giornali dell'Unione.

Da noi, a oggi, sembra prevalere un sentimento antieuropeo, della cui sostanza e della cui permanenza si può dubitare alla luce di ciò che vedremo nei prossimi mesi: alla luce cioè della performance del governo, deludente sui contenuti eccellente nella comunicazione. Per converso, così a occhio, lo schieramento filo-europeo (le cui dimensioni sono tutte da verificare e che, comunque, indicheranno il senso di marcia del Paese) non s'è ancora coagulato intorno a una proposta politica che abbia un qualche senso compiuto.

L'abbiamo constatato varie volte che, in vista delle competizioni politiche più cruciali, i leader si comportano come Maspes e Gaiardoni, i ciclisti della velocità su pista, specializzati nel «sur place».

Ci occuperemo con attenzione di ciò che accadrà e potrà accadere, ma oggi vogliamo brevemente tornare al passato. Al fattore «A», come autolesionismo, incrociato con il fattore «E», come estero, nel senso dei poteri politici che si muovono fuori dall'Italia, in specie in Europa.

Del resto sul passato si riflette poco. Si parla solo del passato recente per demonizzarlo, riproponendo un cambiamento verso qualcosa che non è detto o non si ha il coraggio di dire, tipo la «decrescita felice» o altre simili baggianate. Il cahier des doléances, alimentato dal governo giallo-verde e condiviso dagli italiani, è ampio e, in alcuni casi ben motivato. A me interessa rammentare a chi ricorda cosa c'è da ricordare e a chi non ricorda cosa è mutato nel quadro politico continentale.

Torniamo indietro agli anni 80, quando l'Europa era diretta da una troika composta da Francia (François Mitterrand), Germania (Helmut Kohl) e Italia (Bettino Craxi). La via era tracciata e le decisioni erano ampiamente condivise: nel gioco a tre, apparentemente, era interesse di tutte le parti di coinvolgersi vicendevolmente (anche perché si viveva lo storico crollo dell'Unione Sovietica). Funzionò così bene da permettere Maastricht (febbraio 1992) e la definizione di un percorso di convergenza, quello che, alla fine ci portò all'euro.

Il Muro di Berlino era crollato nel 1989 e, con esso, l'impero sovietico. L'egemonia russa sull'Est del continente era cessata ed era sostanzialmente sostituita da relazione anarchiche e non gerarchizzate.

Una nuova situazione andava rapidamente maturando. La Germania dell'Ovest stava per inghiottire la Germania dell'Est. Kohl aveva necessità del consenso italiano e Andreotti, alla fine, lo dette, benché avesse dichiarato di sentirsi più sicuro con due Germanie che con una sola. E Kohl pagò prezzo, giacché al di là di ogni successiva sceneggiata, impegnò il suo paese a favore dell'ingresso senza ni e senza ma dell'Italia nell'euro. Chi sa le cose, sa che, a margine del consenso italiano alla riunificazione tedesca, c'era questo sostanziale codicillo.

Politicamente era tuttavia, evidente che la riunificata Germania avrebbe tenuto banco nell'Unione.

Il governo italiano si pose il problema del riequilibrio politico dei rapporti di forza (un argomento fuori della portata di tanti governi successivi compreso l'attuale). Dato che i paesi dell'ex blocco sovietico sarebbero stati il terreno di espansione tedesca, occorreva contenere la forza della Repubblica federale. Si immaginò (e si decise) nel cruciale 1990 un accordo tra Italia, Austria, Cecoslovacchia e Iugoslavia inizialmente per i diritti delle minoranze e, subito, dopo, per un progetto di sviluppo (extracomunitario), di cui l'Italia sarebbe stata la potenza egemone.

Fra l'altro, all'interno di questa capacità italiana di movimentare l'Europa, fu definita la creazione di un asse ferroviario mediterraneo (in competizione con l'asse carolingio Parigi-Berlino) che avrebbe collegato Lisbona, via Madrid, Barcellona, Milano, Trieste con Budapest e, infine, con la Russia. Una idea antesignana della Via della Seta cinese in corso di realizzazione.

Un'Italia non passiva nello scenario europeo, probabilmente, infastidiva chi aveva progetti egemonici di tipo diverso, cioè i tedeschi che, pur impegnati nel processo di costruzione del nuovo stato, non perdevano di vista la strategia.

Quasi subito la nostra nazione fu scossa da Tangentopoli: una classe dirigente, un establishment furono spazzati via e di protagonismo italiano non si parlò più. Per Berlino fu come il cacio sui maccheroni. Non voglio dire che Tangentopoli si sia sviluppato per assecondare interessi stranieri.

Voglio solo constatare che la distruzione dell'establishment italiano spianò la strada ai nostri competitori. Un ragionamento che si può riproporre in altre situazione, anche attuali. La guerra alla Tav Torino-Lione favorisce, come abbiamo visto, il consolidarsi del rapporto diretto Parigi-Berlino; la guerra al Tap (a un'alternativa cioè al gas russo-tedesco del North Stream) favorisce appunto i russi e i loro soci tedeschi.

La stessa storia dell'Ilva aveva e ha un manovratore straniero, nemico industriale dell'Italia.

Insomma, la sostanza è chiara. È vero, i nostri partner fanno gli affari loro anche a nostre spese. Non ci aiutano nell'accoglienza degli immigrati illegali (ma chi ha fatto ponti d'oro a circa 1 milione di illegali, aiutandoli a disperdersi in tutta Europa?), non ci aiutano in tutte le partite in corso. Ma siamo stati noi i primi a non aiutarci e a compiere scelte che ci indeboliscono. E poi, francamente, i partner europei non debbono «aiutare» un'Italia che da decenni non è capace di difendere i propri interessi, di spendere i soldi stanziati a nostro favore, di aggiornare amministrazione e giustizia.

Battiamoci quindi.

Ma, prima di tutto, mettiamo a posto le nostre cose.

Domenico Cacopardo www.cacopardo.it

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