Perché se si spegne l’Ilva (e si blocca il Tap) perdiamo tutti. Parla Marcella Panucci (Confindustria)
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Da quando ha espropriato Ilva ai Riva lo stato, cioè noi, ci abbiamo messo 16 miliardi
Gianluca Zapponini 21.12.2017 www.formiche.net
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Perché se si spegne l’Ilva (e si blocca il Tap) perdiamo tutti. Parla Marcella Panucci (Confindustria)
La fumata nera, nerissima, sull’Ilva di Taranto, levatasi ieri pomeriggio dal ministero dello Sviluppo, e perché no l’ennesimo scontro sul Tap, possono essere lo specchio di un Paese che rifiuta la propria stessa vocazione industriale? Se il prezzo da pagare è la perdita dell’ennesimo pezzo di economia, allora la risposta è sì. Per questo, dice in una intervista a Formiche.net Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria (nella foto), dal destino del gruppo siderurgico, a rischio chiusura dopo lo strappo al Mise tra il ministro Carlo Calenda e il governatore della Puglia, Michele Emiliano, dipende anche l’immagine di un Paese, l’Italia.
Panucci, la rottura di oggi al Mise compromette il rilancio dell’Ilva?
L’esito negativo del tavolo di ieri rappresenta senz’altro un ostacolo alla realizzazione degli investimenti sull’area di Taranto, compresi quelli destinati al risanamento ambientale. Crediamo però che gli impegni assunti oggi dal ministro Calenda, a partire dalle questioni più delicate come l’accelerazione della copertura dei parchi, danno sanitario e bonifiche abbiano creato le condizioni per il ritiro del ricorso al Tar da parte degli enti territoriali, che rappresenta il principale ostacolo alla realizzazione di un investimento strategico per il Paese. Per questo, ci auguriamo che a breve possa riprendere un confronto costruttivo tra le parti. Certo non si può pensare di confrontarsi mantenendo i ricorsi.
Al ministero si è parlato di nervi piuttosto tesi durante il vertice su Ilva…
Beh, non si può certo negoziare con una pistola messa sul tavolo…
Si spieghi…
Il governo ha fatto delle aperture importanti sull’Ilva. Per questo penso che gli enti territoriali, Regione Puglia in primis, devono ritirare il ricorso per consentire la realizzazione di un investimento che è già stato oggetto di un percorso autorizzativo molto complesso.
Non teme che questo scontro possa in qualche modo scoraggiare la nuova proprietà (Arcelor Mittal e Marcegaglia, ndr), spingendola fino a scelte estreme, magari un passo indietro e la messa in vendita del gruppo?
È evidente che questa situazione possa creare una situazione di disagio per la nuova proprietà, che si è impegnata alla realizzazione di un piano di investimenti molto rilevante e impegnativo. Non abbiamo però ad oggi registrato segnali di disimpegno, che rappresenterebbero un danno rilevante per la credibilità internazionale del nostro Paese.
Qualcuno dice che il vero terreno di scontro non sia l’ambiente, ma gli esuberi…
Non mi sento assolutamente di avallare questa lettura, anche perché nel corso del confronto di oggi nessuna organizzazione sindacale ha posto questo tema, il ministro ha fatto un esplicito riferimento alla soluzione già intervenuta del problema e, anche nelle dichiarazioni successive all’incontro, sembra prevalere da parte dei sindacati la preoccupazione sulle eventuali conseguenze del mancato investimento.
Qual’è la posta in gioco? Cioè, che cosa rischia davvero l’Italia?
Abbiamo sempre sostenuto che l’Ilva rappresenta una infrastruttura industriale strategica non solo per la Puglia e per il Mezzogiorno, ma anche per il Paese.
Se chiude Taranto saremo costretti a comprare l’acciaio all’estero…
Certo, la crisi dello stabilimento sta già creando problemi per le imprese che utilizzano acciaio e una eventuale chiusura dello stabilimento di Taranto aumenterebbe la dipendenza del nostro Paese dalle importazioni, esponendo le imprese manifatturiere alle oscillazioni del mercato internazionale.
A volte l’Italia sembra essere allergica all’industria…è così? Una sindrome del No a tutti i costi…
Quella che lei definisce come sindrome del No rappresenta un serio problema italiano, sebbene non si tratti di una peculiarità solo nostrana. Il dibattito su temi così rilevanti, come le modalità per tenere insieme ambiente e salute da un lato e industria e lavoro dall’altro, è fisiologico. Non deve però diventare ideologico.
E come si fa a impedirlo?
In questo contesto, la politica è chiamata a stabilire in modo chiaro le regole del gioco e a garantire il rispetto delle procedure, nell’ambito delle quali i diversi soggetti coinvolti possono far pesare la propria posizione. Garantita la correttezza del percorso, arriva però il momento di decidere, anche perché il ‘fattore tempo’ è oggi una variabile decisiva, in tutti i campi. A partire da Taranto, dove si è discusso, ci si è confrontati e ora bisogna andare avanti.
Ci sarebbe anche la questione del Tap…
È vero.
Il governo ha tentato di blindarlo con un emendamento alla manovra (poi dichiarato inammissibile, ndr). Che ne pensa?
Direi che è ben strano il Paese che ha bisogno di una norma per far fare quello che sarebbe normale fare… Speriamo che si riesca a recuperare lucidità e portare avanti un’opera di importanza strategica per il Paese.
Torniamo a Taranto. Chi perde se l’Ilva il 9 gennaio si spegne?
Perdiamo tutti.
Commenti
Da lettere Al direttore de il Foglio - Da quando ha espropriato Ilva ai Riva lo stato, cioè noi, ci abbiamo messo 16 miliardi. Ne servono altri due. E Calenda dice non possiamo rimetterceli ancora noi. Ecco avesse questa responsabilità Michele Emiliano, cioè che i soldi che mette il pubblico sono soldi nostri, forse la smetterebbe di fare il gradasso alle spalle degli altri coprendosi coi bambini. Come quella volta che per andare alla ribalta mondiale fece abbattere Punta Perotti e poi la Cedu ha condannato l’Italia con una sentenza che ora si studia nei manuali e i 50 milioni di risarcimento ai costruttori ce li stiamo mettendo tutti noi. Mica lui.
Annarita Digiorgio