La banca del pianto: JP Morgan
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Da sempre al centro dei giochi politico-finanziari, ora JP Morgan soffre per la sconfitta su Montepaschi
John Pierpont, archetipo del grande banchiere, divenne il re di Wall Street. Il disegno, di Albert T. Reid, risale al periodo tra il 1895 e il 1905
di Stefano Cingolani 2 Gennaio 2017 alle 10:33 Foglio
I toni sono particolarmente intensi e calorosi. Non solo un grande grazie “per il lavoro straordinario che avete fatto per sistemare la più vecchia banca del mondo, il Monte dei Paschi di Siena”, ma il ricordo di legami che hanno scritto la storia, cento anni di rapporti con l’Italia e oltre due secoli durante i quali i clienti “si rivolgono alla nostra azienda in tempi turbolenti”. Jamie e Daniel, come si sono firmati Dimon e Pinto il numero uno della JP Morgan Chase e il capo dei servizi bancari d’investimento, hanno scritto a tutti i collaboratori una lettera accorata. L’operazione Montepaschi è stata condotta dalla casa madre; Vittorio Grilli che guida le operazioni in Europa, medio oriente e Africa, è rimasto dietro le quinte: come ex direttore generale del Tesoro e poi ministro, non sarebbe stato elegante.
Galeotta fu la cena londinese organizzata a luglio da Pasquale Terracciano, l’ambasciatore italiano in terra britannica. Jamie e Matteo si erano conosciuti già nel 2012 a Firenze quando Renzi era sindaco e avevano trovato un’ottima chimica personale. Il salvataggio Mps poteva essere il suggello per un rapporto di lunga durata. Invece, sono caduti insieme nel palio politico-finanziario di Siena. Sarà la prassi, sarà un gesto di cortesia, eppure le parole scelte con cura, l’enfasi e la commozione della lettera dimostrano che la sconfitta brucia.
Certo c’è la perdita delle ricche commissioni (450 milioni che potevano diventare un miliardo e mezzo in cinque anni compresi gli interessi), ma soprattutto c’è l’orgoglio e la reputazione.
JP Morgan è la numero uno in America e non è abituata a stare in un angolo. Da quando John Pierpont, archetipo del grande banchiere con sigaro Avana tra le dita, panciotto e yacht affollato di belle ragazze, divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico-finanziari.
Dimon, che ha sempre aiutato soprattutto i democratici, ha rifiutato l’offerta di Donald Trump che lo voleva come segretario al Tesoro (poi il presidente si è rivolto all’eterna rivale Goldman Sachs).
L’arcipelago del No l’ha accusato di aver dettato a Renzi la riforma costituzionale, frutto dello studio sulle deboli e inefficaci costituzioni dei paesi dell’Europa meridionale scritto nel 2013 (in realtà un rapporto sulla sostenibilità dell’euro). Il Guardian ha dipinto la banca come agente immobiliare occulto del Papa negli anni 30 con i soldi del Concordato. L’Osservatore romano ha raccontato che, al contrario, canalizzava milioni di dollari negli Stati Uniti per finanziare la guerra contro Hitler.
Tra complotti veri e fasulli, insomma, è sempre sotto tiro. I legami con l’Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont Morgan viene invitato ad assumere l'incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell'unità d'Italia. “Nessuno lo merita più di lui”, scrive il comitato organizzatore. Il suo mito supera la stessa realtà: si racconta che nel 1907 abbia salvato l’America dal crac chiudendo dentro una stanza i maggiori operatori di Borsa, mentre lui nel frattempo attendeva a bordo del suo panfilo Corsair (corsaro come Henri Morgan il bucaniere) ancorato sul fiume Hudson. J.P. muore a Roma il 13 marzo 1913, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l’anno.
Nel 1915 i suoi successori partecipano a un prestito di 25 milioni di dollari al governo italiano, guidato dalla Guaranty Trusting Company presso la quale la Banca d’Italia apre il primo conto in dollari. Durante la Grande guerra, è la JP Morgan a fare da riferimento per gli alleati, suggello del ruolo interpretato sulla scena internazionale. Prima nel 1925 e poi nel 1927 finanzia Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard (il sistema che regolava i cambi delle principali valute collegandole all’oro).
Nel 1928 sbarca a Milano la Chase National Bank che tre anni dopo verrà controllata dai Rockefeller. Gli stretti rapporti tra Gianni Agnelli e David Rockefeller, capo di quella che dal 1955 diventa Chase Manhattan, aiuteranno la Fiat sia in Italia sia negli Stati Uniti. Nel dicembre 2000, il matrimonio tra la Chase e la JP Morgan dà vita a un gigantesco supermercato finanziario con 235 mila dipendenti e un giro d’affari vicino ai cento miliardi di dollari. Tra i suoi scaffali, per così dire, figura anche il Vaticano, cliente eccellente e a lungo fedele, almeno fino al 2012, quando viene chiuso il conto allo Ior finito sotto la lente della procura di Milano dopo che la Banca d’Italia ha individuato anomali movimenti con l’estero, sollevando il sospetto di riciclaggio. Di guai con la giustizia, del resto, la JP Morgan ne ha avuti e non solo in Italia. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale, la balena è il gigantesco ammanco scoperto nella filiale londinese: sei miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, dalla procura di New York parte una denuncia per truffa sui mutui subprime.
La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008 dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare. Una scelta che, secondo le accuse degli investigatori, ha accelerato la caduta dell’immensa valanga che ha poi travolto la Lehman Brothers e l’intero sistema finanziario mondiale. “Noi abbiamo capito che la bolla stava per scoppiare, gli altri no”, si difendono alla JP Morgan. Poi, però, gli avvocati patteggiano un risarcimento da 13 miliardi di dollari. Jamie Dimon, nato a New York nel 1956 da genitori di origine greca, dopo una laurea in Psicologia e un master alla Harvard Business School fa carriera all’American Express dove acquisisce l’esperienza di venditore che dal 2005 porterà anche alla JP Morgan Chase.
La grande crisi finanziaria non lo travolge, anzi. La banca sta meglio di tutte le altre, ma accetta 25 miliardi dal Tesoro. Dimon conosce il galateo istituzionale. “Il governo degli Stati Uniti ce lo ha chiesto e noi lo faremo”, così nel settembre 2008 zittisce il capo della finanza che resisteva di fronte al gigantesco salvataggio della Aig (American International Group) presso la quale si erano assicurate tutte le grandi banche del mondo. JP Morgan e Goldman Sachs fanno da ponte per l’intervento diretto del governo una volta approvato dal Congresso il piano Tarp.
Il Tesoro resta quattro anni, poi vende le proprie quote e guadagna 22 miliardi di dollari. Il salvataggio delle banche americane è una storia di successo. Sono scomparsi i grandi intermediari indipendenti, le banche d’investimento, secondo la definizione europea: la Lehman Brothers è fallita e le sue operazioni negli Usa sono state assorbite dalla Barclays; la Bear Stearns è stata rilevata da JP Morgan Chase; la Bank of America ha acquisito Merrill Lynch; Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state trasformate in holding bancarie, quindi non possono più sottrarsi alla regolazione delle autorità pubbliche. Fannie Mae e Freddie Mac, le due grandi agenzie di credito ipotecario, sono state nazionalizzate.
E’ aumentata la concentrazione, ma il sistema finanziario è meno bancocentrico di quello europeo. La legge bancaria Dodd-Frank Act approvata nel 2010 ha favorito questi cambiamenti. Ora Donald Trump la vuole rovesciare come un guanto, per rendere le banche più sicure e sottrarle allo strapotere dei banchieri, alla Dimon o alla Lloyd Blankfein, il big boss di Goldman Sachs, gli unici due sopravvissuti alla crisi. L’argomento è popolare e populista insieme. Gli uomini scelti da Trump, tutti di scuola Goldman Sachs, da un lato vogliono che le banche aumentino il capitale in rapporto agli impieghi, una misura all’europea che irrigidisce il sistema, dall’altro predicano di allentare le regole che impediscono alle aziende creditizie di prendere i depositi e giocarseli a Wall Street. La banca che presta soltanto oggi non fa profitti, ci vuole quella che scommette in Borsa, ma non è chiaro come si combineranno questi due obiettivi in sé contrastanti.
La Trumpnomics allo stato attuale è tutta una contraddizione. In Europa, la JP Morgan è stata colpita a più riprese. Lo scorso mese la commissione di Bruxelles se ne è uscita con la richiesta alle grandi banche straniere di mantenere una quota extra di capitale all’interno dei confini europei, così da poter intervenire se le filiali hanno problemi. E’ la risposta sia pur tardiva a quel che hanno deciso le autorità americane due anni fa. Una tendenza ad alzare muri, ha scritto il Wall Street Journal, che sta diventando il nuovo mal sottile dell’economia mondiale. Ogni paese cerca di farsi più protettivo alimentando la grande onda protezionista che mette in crisi il laissez faire. Questa spinta non è cominciata con Trump, ma The Donald sembra intenzionato a peggiorarla. La JP Morgan deve pagare a Bruxelles la multa più pesante (337 milioni di euro) per aver manipolato insieme alla britannica Hsbc e alla francese Crédit Agricole, tra il 2005 e il 2008, il tasso d’interesse chiamato Euribor, punto di riferimento per la maggior parte dei mutui immobiliari. Insieme a loro hanno complottato Deutsche Bank, Barclays, Rbs e Société Générale, ma queste quattro hanno patteggiato in anticipo.
C’è poi tutta l’ordalia sui derivati, contratti finanziari nei quali la JP Morgan è stata un’apripista. Oggi dai suoi bilanci risulta la presenza di derivati per 43 mila miliardi di dollari, quattro volte il prodotto lordo degli Stati Uniti. Non è vero, come vuole una vulgata popolare, che sia lei ad averli inventati. Secondo alcuni risalgono agli albori del mercato finanziario e c’è chi evoca persino Shylock, il quale presta i suoi quattrini al ricco mercante Antonio ma chiede come sottostante una libbra della sua carne. Non c’è dubbio, tuttavia, che si deve ai cervelloni della JP Morgan il credit default swap, uno degli strumenti più usati contro il rischio di credito, introdotto per proteggersi dal disastro petrolifero provocato dalla Exxon Valdez nel 1994. Oggi i cds rappresentano la stragrande maggioranza dei derivati in pancia alle banche di tutto il mondo. Dalla fine degli anni 80 la JP Morgan ha ingaggiato un braccio di ferro con le autorità monetarie americane, o meglio con la Commodity Futures Trading Commission (Cftc), agenzia indipendente che sovrintende agli scambi in opzioni e derivati, affinché questi contratti non venissero regolati, come avviene invece per i futures.
Il lobbista Mark Brickell è stato l’alfiere di questa battaglia. Secondo Franco Spinelli, ordinario di Economia politica a Brescia e autore con Michele Fratianni di una fondamentale storia della lira, “Brickell fa finta di non vedere che i derivati non annullano il rischio, ma lo spostano semplicemente da un’istituzione a un’altra, con conseguente formarsi anche di un grado di interconnessione tra le medesime, che prima non esisteva”. Sono loro i nuovi untori della peste.
Demonizzati quasi ovunque, vengono usati in Italia come argomento strumentale dai media e dalla magistratura. Il programma televisivo Report diventa il paladino della lotta alla piaga e mette sott’accusa in particolare i comuni che li hanno usati per imbellettare i loro bilanci. Nel mirino finiscono Milano, l’immancabile JP Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa. Secondo la procura, avrebbe «raggirato» l'amministrazione milanese stipulando nel 2005 uno swap trentennale (contratti sottoscritti dalla giunta Albertini e poi rinnovati più volte sotto la giunta Moratti) senza informare come dovuto di tutti i rischi dell'operazione. Gli imputati, però, sono stati assolti perché “il fatto non sussiste” e con molte scuse. Tanto rumore per nulla?
Il procuratore aggiunto Alfredo Robledo che ha condotto l’accusa, commenta serafico: “In una materia così nuova e complessa, è più che legittima la diversità di opinione”. Il tribunale, dunque, come un’aula universitaria? Colpirne uno (quattro in questo caso) per educarne cento? I derivati non sono un pranzo di gala, hanno penalizzato persino JP Morgan, figurarsi il Tesoro italiano. La Corte dei conti accusa: hanno prodotto un danno erariale e la colpa sarebbe questa volta di Morgan Stanley. La banca è stata convocata insieme ai maggiori funzionari del Tesoro vecchi e nuovi (Vittorio Grilli, Vincenzo La Via, Maria Cannata).
La magistratura contabile chiede indietro 4,1 miliardi di euro. Anche la Germania ha perduto quattrini, mentre l’Olanda è quella che più ha tratto vantaggio seguita da Svezia, Portogallo e Francia. Dunque, l’untore non contamina tutti allo stesso modo. La caccia all’errore è benemerita, molto meno la caccia alle streghe. I prestiti in tempi di crisi generano perdite certe e immediate, i derivati rinviano la resa dei conti, ne è convinta anche la Bce; ecco perché Mps ha fallito gli stress test e Deutsche Bank no (non ancora). Jamie Dimon, rimasto in sella anche durante gli otto mesi di chemioterapia per un cancro alla gola, non può continuare per sempre. Ha guadagnato milioni di dollari anche quando la banca li ha persi come nel caso London Whale, ha sfidato gli azionisti che nel 2013 volevano ridurre i suoi poteri, insieme a Warren Buffett e Mary Barra della General Motors si è speso per salvare l’idea di public company, l’impresa senza padrone dove il manager è re. Amatodiato dalla Borsa, rispettato e a lungo vezzeggiato dai politici, si fanno sempre più forti le voci sulla sua successione; il mese scorso l’agenzia Reuters ha passato in rassegna i sei possibili candidati, tra i quali Daniel Pinto, lo stesso che ha firmato la lettera di ringraziamento dopo il fiasco senese. Chissà se influirà anche il piccolo Montepaschi sul futuro del grande elefante.
Ai vertici della banca senese c’è chi confessa la propria delusione: “Certo un colosso che fa 40 miliardi di dollari di utili e in sei mesi non ci trova un investitore da 500 milioni stupisce”, commenta un top manager al Sole 24 Ore. E “la svolta” annunciata da Paolo Gentiloni che ha salutato l’intervento diretto del Tesoro e l’abbandono del piano JP Morgan sponsorizzato da Renzi, può essere un segnale che la stella di Wall Street, almeno in Italia, non luccica più come prima?
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