Ha vinto Bersani con Grillo, il Cav con Zagrebelsky, l'Anpi con Casa Pound. Come potranno governare?
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Ma contro che cosa o chi, si è battuto il 60% degli elettori che ha votato No? Contro diverse cose contemporaneamente. Ed è opportuno esaminarle analiticamente per cercare di capire le possibili ricadute politiche di questo voto.
di Pierluigi Magnaschi ItaliaOggi 6.12.2016
La vittoria degli ostili alla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi è stata schiacciante: quasi il 59% dei voti contro poco meno del 41% di voti a favore del progetto. Non solo, anche se nei referendum relativi alla modifica costituzionale non è necessario il quorum (che è dato dall'obbligo del superamento 50 più uno per cento dei voti) e tenendo presente che molti precedenti referendum ordinari non erano riusciti ad avere successo proprio perché, pur avendo raggiunto la maggioranza relativa, non erano riusciti a passare oltre l'asticella del 50% dei voti, ci si aspettava che la partecipazione al voto (in questi tempi di disappetenza politica diffusa) sarebbe stata del 52-55%. Invece è stata del 68%, a dimostrazione del fatto che questo appuntamento elettorale non è stato preso sottogamba da nessuno. Anzi, ha raggiunto dei livelli di rissa e di combattività fra gli opposti schieramenti, anche in periferia (anche cioè fra amici o nell'ambito delle stesse famiglie), che non si erano mai più visti dal tempo dell'arroventatissimo esordio politico di Silvio Berlusconi, quando il Cavaliere veniva vissuto e descritto come il male assoluto e irredimibile.
Ma contro che cosa o chi, si è battuto il 60% degli elettori che ha votato No? Contro diverse cose contemporaneamente. Ed è opportuno esaminarle analiticamente per cercare di capire le possibili ricadute politiche di questo voto.
Il primo segmento di votanti per il No era contro la modifica della Costituzione per partito preso. Essendo, ai loro occhi, quella italiana, «la Costituzione più bella del mondo» (anche se non è vero; ogni Costituzione ha i suoi pregi e i suoi difetti; e anche le Costituzioni più belle invecchiano e quindi meritano dei lifting periodici, quando non dei pesanti interventi di chirurgia plastica) è evidente che, per costoro, una revisione costituzionale, qualunque essa sia, è un gesto sacrilego e perciò inaccettabile.
Ho la sensazione che, in Italia, dopo quest'ultimo referendum, la Costituzione, che pure avrebbe bisogno, quanto meno, di un aggiornamento, non sia più realisticamente modificabile nei prossimi trent'anni, almeno. È opportuno infatti ricordare che questo non è il primo incidente nel lungo e complesso cammino di una riforma costituzionale che tutti, quando a loro conviene, ritengono sia indispensabile
Infatti anche la riforma a suo tempo fatta da Berlusconi (che non era male, bisogna riconoscerlo) venne cassata con un apposito referendum. Mentre quella alla quale lavorarono a lungo D'Alema e Berlusconi, con la famosa Commissione bicamerale, non riuscì nemmeno a vedere la luce, tanti furono gli ostacoli che essa incontrò nella sua gestazione. La prima conclusione è quindi che dopo questo referendum, l'Italia dovrà adattarsi a vivere nel corsetto asfittico di una Costituzione che, quando fu concepita, tentava di parare pericoli che non esistono più.
Pericoli come quello della ricostituzione del partito fascista (che, nel 1948, era da poco caduto) ma che restava (o si temeva restasse) ancora ben radicato nel Paese. Contro questo pericolo vennero posti, nella Costituzione, pesantissimi ostacoli alla governabilità. Insomma, per evitare la possibilità di un governo forte, di un governo che governi (anche se sempre democratico) si resero, addirittura per via costituzionale, i governi deboli, quasi flebili, infilandoli nella carrozzina dei governi che si muovono poco, male e con circospezione e che capottano sovente. Così imparano.
L'altro pericolodi cui la Costituzione italiana tiene conto è il rischio, sempre nel primo dopoguerra (e paventato, allora, soprattutto dagli americani), il rischio, dicevo, che il più grande partito comunista esistente in Occidente (quello italiano, appunto) potesse poi manovrare per far finire l'Italia nelle braccia dell'Urss. Il pericolo della ricostituzione del partito fascista non esiste più e solo gli allucinati (per fortuna pochi) continuano a vederlo. Che non esista più il rischio fascista, lo ha dimostrato anche il fatto che l'Anpi (che è l'Associazione nazionale partigiani d'Italia) ha sfilato con le sue bandiere (a favore del No, appunto) assieme a quelle di Casa Pound dove operano, non ex missini come quelli che sono al vertice di Fratelli d'Italia, ma fascisti veri e propri, anche se essi, ormai, sono più che altro folcloristici.
E che non esista il rischio che l'Italia finisca, oggi, nel Comecon (che, oltretutto, non esiste più nemmeno come organizzazione) è chiarissimo, anche se, purtroppo, di fronte a questo pericolo che non esiste più, c'è ancora, nella Costituzione italiana, la norma, indubbiamente mortificante e assolutamente liberticida, che vieta di indire dei referendum sui trattati internazionali e che ha impedito, ad esempio, agli italiani, di sottoporre a referendum l'accettazione del Trattato di Maastricht (con i guai poi che abbiamo dovuto subire da questa scelta assunta da poche persone nel ristretto delle loro stanze di potere).
Dopo il No di domenica scorsa quindi nessuna revisione costituzionale sarà più possibile nel giro di almeno una generazione. Ma non tutti coloro che hanno votato contro la revisione costituzionale avevano in mente la Costituzione.
Molti hanno usato il pretesto di questa revisione per impallinare il premier Renzi che rischiava di governare sino alla fine della legislatura. E coloro che erano contro Renzi erano, solo in parte, contro il suo stile di governo (e, se vogliamo, anche la sua faccia) ma la maggioranza era contro la sua voglia di cambiare il paese.
L'Italia invece, con questo referendum, ha mandato questi due messaggi inequivocabili:
il primo, è che Renzi deve pagarla per gli ultimi vent'anni di mala gestione pubblica in Italia (anche se è al governo da meno di tre anni e, prima, non c'entrava assolutamente con la gestione del Paese). Il bello è che, gran parte di coloro che si sono scatenati in questa occasione elettorale, aveva la mani in pasta nei precedenti 17 anni di mala gestione. Avrebbero dovuto criticare loro stessi e hanno trovato il modo, con un'operazione dialetticamente abilissima, di far criticare, per le loro malefatte, un altro che non c'entrava.
Il secondo messaggio è che in Italia non si deve fare niente perché, pare di capire, tutto va bene così, soprattutto per chi ha già un posto di lavoro pubblico, al riparo da ogni crisi. E gli altri? Gli altri si arrangino. Non a caso, la Camusso ha proposto recentemente di assumere 500 mila nuovi dipendenti pubblici in un solo botto (indifferente al loro costo che dovrà essere coperto da altre tasse che graveranno anche sui lavoratori) mentre Fillon, in Francia, vince le primarie promettendo, per iniziare a risanare i conti dello stato, di ridurre di mezzo milione i dipendenti pubblici.
Il terzo messaggio è che, detronizzando Renzi, l'Italia può essere facilmente governata. Ma la forza che ha detronizzato Renzi non è unibile in una maggioranza. Ne fanno infatti parte partiti che hanno le idee più diverse. La loro operazione infatti è stata del tipo Pizzarotti, il sindaco ex grillino di Parma che fu eletto, non da simpatizzanti del M5s, ma dagli antipatizzanti del Pd che, nel ballottaggio, avevano unito i loro voti a quelli del M5s (con il quale non avevano niente da spartire) ma con il quale avevano più da spartire che con il Pd, da loro considerato come il partito da abbattere.
Il caleidoscopio anti Renzi (se non si vuol parlare di accozzaglia, che però è anch'esso un termine appropriato, in base alla definizione del vocabolario Treccani) non fa maggioranza.
È stato un ariete che ha abbattuto il presidente del consiglio e che, al massimo, a questo punto, potrà dar luogo a un governo di scopo (cioè per approvare faticosamente la nuova legge elettorale) cioè a un governicchio, in un momento in cui l'Italia invece, per tutelare i suoi interessi, dovrebbe essere in grado di partecipare a trattative internazionali con un premier autorevole, dotato di un mandato preciso e con, alle sue spalle, una maggioranza coesa.
Pierluigi Magnaschi
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