Tutte le balle dell’Economist sul referendum costituzionale

Il settimanale britannico si schiera per il No al referendum, ma non rende grande giustizia alla propria reputazione, inanellando una serie impressionante di contraddizioni e strafalcioni. Soprattutto, mettendo in mostra la propria sfiducia per la democrazia in Italia

di Francesco Cancellato Linkiesta 2511.2016

“Perché l’Italia dovrebbe votare no al suo referendum”. Così titola l’Economist, dilettandosi in uno dei suoi formati più riusciti: il bacio della morte alla parte politica che intende appoggiare. Così era stato per Berlusconi “unfit to lead Italy” nel 2001, che vinse a mani basse. Così è stato per la Brexit e Trump, entrambi osteggiati dal settimanale londinese di proprietà della famiglia Agnelli. Se i sostenitori del No hanno smesso di leggere l’articolo per cercare oggetti in ferro, qualche ragione ce l’hanno. Scaramanzie a parte, quel che sorprende di un giornale solitamente autorevole come l’Economist è la scarsa qualità delle sue motivazioni. Talmente sconclusionate e deboli da far pensare a un pesce d’aprile fuori stagione. O a un finto endorsement per il No, per poter far dire a Renzi che i poteri forti ce l'hanno con lui. O per portare sfortuna ai suoi nemici.

Andiamo con ordine: “La riforma di Renzi non affronta il principale problema dell’Italia, che è la ritrosia alle riforme”, inizia ad argomentare il settimanale, in spregio a ogni principio di non contraddizione. Uno scivolone iniziale, tuttavia, si potrebbe anche perdonare. Se non fosse che non passa una riga e la storia si ripete: ”Tutti i benefici secondari (della riforma, ndr) - si legge - sono superati dagli inconvenienti - primo fra tutti quello che, per fermare l’instabilità, si apra la strada a un “uomo forte” (…) nel Paese di Mussolini e Berlusconi”. Qualcuno avvisi l’Economist che Berlusconi, uno dei sostenitori del No, tornerebbe in gioco proprio nel caso in cui gli italiani bocciassero la riforma.

Però, scrivono ancora, c’è anche un altro problema: “Il Senato non sarà eletto”. Non è del tutto vero, in realtà. Perché i senatori saranno indicati dai cittadini al momento delle elezioni dei consigli regionali. E allo stesso modo, quando gli elettori dei sindaci delle aree metropolitane sapranno che il loro voto vale anche un giro in Senato ogni quindici giorni. Qualcosa su come gestiranno quel potere dovranno pur dirlo, in campagna elettorale. La cosa più simpatica, però, è un’altra. Che l’Economist ha sede in un Paese in cui la camera alta si chiama House of Lord e non è elettiva dal quattordicesimo secolo. Di più: che tutte le riforme che negli ultimi vent’anni hanno provato a renderla tale si sono miseramente arenate. L’erba del vicino, a volte, è davvero più verde.

Morale? Il rischio più grande è che “il principale beneficiario delle riforme di Renzi sarà Beppe Grillo”. Potevate dirlo prima, cari amici britannici, che il vostro problema con l’Italia è che siamo una democrazia

Il bello deve ancora venire, però: “Renzi - scrive l’Economist - ha promosso una legge elettorale per la Camera dei Deputati che offre un immenso potere a chiunque vinca le elezioni nella camera bassa”. Per la cronaca, la legge elettorale non è oggetto di referendum. E quell’immenso potere, sempre per la cronaca, è il 54% dei seggi a chi supera il 40% dei voti o, se nessuno li supera, a chi vince il ballottaggio. In Gran Bretagna invece non c’è premio di maggioranza, ma il turno unico con l’uninominale secco di collegio. Dunque: nel 1997 Tony Blair vinse le elezioni con il 43,2% dei voti e ottenne il 63,4% dei seggi. Nel 2001, con il 40,7% dei voti e ottenne il 62% dei seggi. Nel 2005 con il 35,2% ne ottenne il 54%. Nel 2015, l’Ukip di Nigel Farage ha conquistato un solo seggio col 12% dei voti. Lo Scottish National Party invece, ne ha presi 56 con il 4,7%. A proposito di leggi elettorali, immensi poteri e rappresentatività.

“Far passare le leggi non è il più grande problema dell’Italia”, concede in ogni caso il settimanale britannico, che verso la fine della sua giaculatoria ci concede un po’ della sua sapienza. Il problema è che l’Italia “è perennemente resistente alle riforme”. Quindi? Quindi - dice l’Economist - se cadesse Renzi “non sarebbe una catastrofe” perché “arriverebbe un governo tecnocratico, come altre volte in passato”. Che, aggiungiamo noi, farebbe le riforme che servono contro il volere del paese “perennemente resistente alle riforme”. Poche righe fa l'Economist temeva l’Uomo Forte, se non ricordiamo male.

Morale? All'Economist fa orrore lo spettro di Beppe Grillo primo ministro, “eletto da una minoranza e cementato a Palazzo Chigi dalle riforme di Renzi”. Uno che guida un Movimento - a Londra hanno la memoria corta - che è stato cementato in Parlamento da quattordici mesi di governo Monti. E a cui nessuna legge elettorale impedirà di andare al Governo, se la situazione economica in Italia non dovesse migliorare. Si chiama democrazia e ce l'abbiamo pure qua in Italia. Piaccia o meno ai sudditi di sua Maestà.

(Ah, per la cronaca: Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle sono capofila del No. Ma non ditelo all’Economist)

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