Perché la sinistra Pd ha scelto di giocare la carta della spallata a Renzi
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La vittoria del No renderebbe la diaspora inevitabile e trasformerebbe Bersani in un nuovo Fini. Paradossi: il recupero di influenza di FI passa per la distruzione del sistema dell’alternanza
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di Redazione | 09 Novembre 2016 ore 06:15 Foglio
Gli oppositori di Matteo Renzi e della riforma costituzionale, in particolare quelli iscritti al suo stesso partito, sembrano puntare a una sconfitta elettorale del premier che preluda a un cambiamento nella segreteria del partito, con un avvicendamento sostanzialmente fisiologico nelle due cariche. I più avveduti tra loro sanno bene infatti che la sconfitta referendaria aprirebbe due crisi laceranti, una di governo e l’altra interna al Partito democratico la cui soluzione sarà ardua e comunque traumatica. L’idea che si tratterà, sul piano istituzionale, soltanto di gestire una modifica della legge elettorale e su quello della vita del Pd soltanto di andare a una normale consultazione degli iscritti è infondata. Sul piano governativo bisognerà, in caso di sconfitta e di inevitabili dimissioni di Renzi, fronteggiare le conseguenze sul piano economico dell’ingovernabilità. I segnali che già vengono dallo spread e dall’Europa, sommati ai rischi che corrono alcuni importanti istituti di credito, diventeranno una dura realtà.
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Lo spiega con chiarezza Michele Salvati, che prevede la necessità di passare la mano, per la terza volta, dopo Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti (la quarta se si considera la parentesi del governo di Lamberto Dini), a un nuovo governo tecnico incaricato di salvare il salvabile. E’ in sostanza quello che è accaduto in Grecia, con governi di austerità che hanno aperto la strada alla strategia suicida dei vari Varoufakis. La politica economica sarebbe commissariata dalla Troika, per un breve periodo, dopo il quale sarebbe difficile contrastare l’ascesa di Beppe Grillo. Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema sanno bene che questa è la prospettiva che si aprirebbe, ma pensano che almeno riusciranno, nel caos, a riprendere il controllo del Partito democratico. Anche questo obiettivo, peraltro, sarà probabilmente mancato. La sconfitta politica del partito e il fallimento del suo governo sarebbero imputati ai dissidenti, anche chi in passato ha sostenuto Bersani lo abbandonerà e l’esito sarà la diaspora e la disgregazione della formazione di centrosinistra, simile a quella che colpì il centrodestra dopo la secessione di Gianfranco Fini. Bersani, che probabilmente nella sua testa ha in mente un esecutivo guidato dal presidente del Senato Pietro Grasso in caso di vittoria del No, si rende conto che la sua sorte politica è destinata a somigliare a quella di Fini, perché chi determina la dissoluzione di una formazione politica non può poi pensare di assumerne la guida, però ha compiuto lo stesso la scelta del rancore e della ritorsione. In questo senso è vero che la sua decisione non è basata sulla ricerca di una poltrona, è solo dettata dalla volontà di far fuori chi lo ha sconfitto all’interno del partito.
In questa spirale distruttiva si è fatto coinvolgere anche Berlusconi, che pure, avendo subìto in prima persona le conseguenze dell’accanimento dei distruttori, rischia di favorire la ripetizione del misfatto. La prospettiva in cui anche lui inscrive una possibilità di recupero di influenza di Forza Italia è quella che passa per la distruzione del sistema dell’alternanza. La vittoria elettorale del centrodestra (a trazione leghista) a Monfalcone e in altri centri del Friuli non dovrebbe illuderlo. Dovrebbe invece preoccupare Renzi, perché se il sì non farà il pieno nel centro-nord soccomberà alla pulsione antiproduttiva e antiriformista del “nuovo” meridionalismo, dove Michele Emiliano ha assunto la guida del dissenso nel Pd. Naturalmente Renzi ha le sue colpe, se la situazione si presenta così critica, ha cercato di cavalcare anche il giustizialismo di Emiliano e di Debora Serracchiani, e ora ne paga le conseguenze. L’ingrediente giustizialista, d’altra parte, è sempre stato essenziale nella distruzione della stabilità e nella promozione di governi tecnici sull’onda del trionfo dell’antipolitica, elemento che Salvati trascura nel suo esame delle vicende che, dal 1992 in poi, hanno periodicamente dissestato gli equilibri e la stabilità politica in Italia.