La legge che non ferma il caporalato
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Le nuove norme sul lavoro non risolvono le troppe questioni aperte
di Redazione | 20 Ottobre 2016 Foglio
Ennesima occasione sprecata da parte del Parlamento italiano per fare davvero i conti col mercato del lavoro e col fenomeno del caporalato. La legge appena approvata è stata salutata da più parti come la manifestazione della ferma volontà dello stato di arrestare un fenomeno unanimemente rappresentato con enfasi come riprovevole e lesivo della dignità umana. In verità si tratta di un’altra legge-manifesto per mezzo della quale il nostro legislatore non ha fatto altro che girare lo sguardo dall’altra parte rispetto alla reale natura dei problemi da affrontare. Ancora una volta, per cominciare, l’unico strumento di contrasto che il legislatore ha ritenuto di potere utilizzare è stato quello dell’aumento delle sanzioni penali per i trasgressori del divieto imposto dalla legge sulla lotta al caporalato. Uno strumento che si è già rivelato inefficace in questa come in altre numerosissime circostanze e che non aggiunge alcunché sul piano della deterrenza e della prevenzione del fenomeno che si vorrebbe arginare.
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La nuova legge non aiuta a sciogliere l’interrogativo di fondo sulle ragioni per le quali interi settori dell’agricoltura (soprattutto nel sud Italia) sono dominati da piccole imprese che non riescono a stare sul mercato rispettando i parametri dei contratti collettivi di lavoro (Ccnl), ma agevola ipocritamente l’identificazione fra chi paga tariffe orarie o giornaliere inferiori al Ccnl (lo si ripete, senza usare violenza, minaccia o intimidazione) e lo sfruttatore della dignità del povero lavoratore.
Lo stato, infine, non perde occasione per ingerirsi nella gestione dell’economia privata e per creare nuove figure di funzionari pubblici addetti alla continuazione dell’attività imprenditoriale sequestrata sul cui patrimonio peserà naturalmente il compenso dei novelli “commissari del popolo”, nominati tutti con criteri evidentemente di fedeltà politica da una qualche autorità pubblica. Perché non introdurre invece una regola semplice e di facile applicazione? Il lavoratore e l’imprenditore sottoscrivano il contratto di lavoro davanti a un’autorità che garantisca l’effettiva libertà del lavoratore nell’accettare condizioni peggiorative del contratto collettivo, cosicché qualsiasi pattuizione difforme non potrà dare luogo a controversie giudiziarie vessatorie né incoraggiare l’applauso per le manette facili.
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