Premi alle coalizioni, un flop
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Bossi fece poi saltare Berlusconi. E Bertinotti, Prodi. E queste scelte non aiutano la stabilità».
di Cesare Maffi ItaliaOggi, 6.10.2016
La passione per il premio di maggioranza alle coalizioni è diffusa.
È quindi giunta controcorrente l'osservazione ostile espressa da Luigi Zanda, capogruppo senatoriale del Pd: «L'Italia negli ultimi tempi non ha mai avuto grande fortuna con le coalizioni. Romano Prodi è stato fatto cadere da Clemente Mastella, l'Idv e Sel sono entrati col Pd in parlamento e poi ci hanno lasciato.
E queste scelte non aiutano la stabilità». È una voce di peso all'interno del Pd che sostiene la ben nota propensione di Matteo Renzi per il premio alla lista, da lui stesso introdotto all'epoca del patto del Nazareno, dopo aver persuaso uno scettico Silvio Berlusconi.
Che le coalizioni non abbiano buona fama è innegabile.
Nei primi anni della vita politica repubblicana, a dir la verità, funzionarono egregiamente, come si vide con le comunali del 1951-'52, rette da un sistema che assegnava i due terzi dei seggi al partito o alla coalizione che, nell'unico turno, fosse arrivata prima. Si affermarono così estesamente maggioranze centriste, ma pure il fronte popolare ebbe i suoi successi, e non mancarono i capoluoghi conquistati dalle destre coalizzate. Il premio maggioritario nelle politiche del '53 non fu assegnato per un'inezia di voti mancanti alla coalizione centrista.
Poi, si salta alle riforme elettorali maggioritarie entrate in vigore nel '93. Negli enti locali non si può negare che il sistema abbia funzionato, probabilmente perché in larga misura dipendente dall'elezione a suffragio popolare del sindaco. Altro discorso, invece, riguarda le politiche.
Silvio Berlusconi vinse nel '94 con due distinte alleanze, che non gli garantirono la maggioranza a palazzo Madama. Composto faticosamente il governo, durò pochi mesi, finché Umberto Bossi col ribaltone mandò a carte quarantotto l'intesa: gli eletti leghisti con i voti forzisti e centristi costituirono (non tutti, però) una nuova maggioranza con Pds e Ppi, schietto esempio di rovesciamento delle alleanze.
L'Ulivo si affermò nel '96, grazie a un patto di desistenza con Rifondazione, partito che due anni dopo mandò sotto il governo Prodi: il centro-sinistra ricorse al sostegno di transfughi, propiziato da Francesco Cossiga. Nel 2006 (prime elezioni col porcellum) vinsero le tredici liste coalizzate nel centro-sinistra contro le dodici schierate nel centro-destra, ma, come ricordato da Zanda, l'abbandono di Mastella (e di Lamberto Dini) significò la repentina fine della legislatura.
Nel 2008 le coalizioni, in virtù della vocazione maggioritaria propugnata da Walter Veltroni, furono ridotte all'osso: tre liste a destra, due a sinistra, però l'Idv di Antonio Di Pietro non solo non si fuse con il Pd, come da intese pre elettorali, ma seguì una propria autonoma linea. Ci pensò poi Gianfranco Fini a spezzare il Pdl.
Quanto alla legislatura in corso, il governo di Enrico Letta vide all'opposizione Sel, che aveva fatto col Pd un'alleanza sotto l'etichetta di Italia bene comune. Le nove liste coalizzate dietro il Cav patirono subito divaricazioni: Lega e Fd'It si opposero a Letta, sostenuto dal Pdl che si mutò poi in Fi, con salassi conseguenti.
Non si può, dunque, sostenere che le coalizioni politiche siano in Italia granitiche: possono durare un paio d'anni o dissolversi addirittura poche settimane dopo il voto, alla prima fiducia parlamentare.
E siccome anche i partiti sono tutt'altro che macigni, Renzi, che di un partito è segretario, sa di potersi fidare poco poco del proprio stesso movimento. A maggior ragione non nutre fiducia negli alleati: infidi, ricattatori, pretenziosi, trasformisti, pronti a tradire.
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