Le comiche di mafia capitale

I giornaloni non capiscono che la stanno facendo grossa e fuori del vaso con il bollino mafioso. Ora arrestano i morti, uno sballo. Consigli di lettura sulla differenza tra corruttela e crimine organizzato e magistrati intrufolini

di Giuliano Ferrara | 09 Giugno 2015 ore 16:50

Hard news. Storie di mafia e di magistrati “intrufolini”. Martedì stavano per arrestare un defunto nell’ambito dell’indagine per Mafia Capitale (ristrutturazione dell’aula di Giulio Cesare, appalticchio). Nel frattempo i pm hanno reso noti gli interrogatori segreti di Salvatore Buzzi, il santo sociale ex carcerato a capo della coop 29 giugno: dice che una volta pagò con 7.000 euro gli stipendi del Partito democratico di Roma (“amo fatto ‘n figurone!”), su richiesta conforme del tesoriere, e che l’assegno era intestato al Pd-Roma, e la ricevuta era firmata dal tesoriere per conto del Partito democratico romano. Scandali, rubacchiamenti: Roma è corrotta dai tempi di Lucrezio, di Virgilio, di Marziale, non sono novità (e il mondo civile è corrotto da altrettanto). Ma che c’entra Cosa Nostra? Poi sono venuti fuori conversari con il capo di gabinetto del presidente della Regione Zingaretti e con il capogruppo, per non parlare di altri intrecci trasversali Pd-Pdl. Robetta. Cose di ordinaria bonifica legale. Ma sui giornali e in tv, in una campagna dilagante e chiassosa auspice un verdetto del 10 aprile della Cassazione, è un’associazione di stampo mafioso, è Mafia Capitale che si mangia Roma e la Repubblica. Da ridere. E noi la beviamo, con tutte le ricevute del caso, che ancora non conoscevamo come modalità contabile dell’onorata società.

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La notizia parallela del mondo parallelo è che Einaudi ha pubblicato un libro-testimonianza eccezionale, curato dal direttore di questo giornale, in cui un magistrato di sinistra, che ha detto basta e con due anni di anticipo si è ritirato dalla carriera con la missione di dire la verità sulla malagiustizia in Italia, spiega tutto quel che stiamo confusamente vedendo. E’ la chiave critica per godersi lo spettacolo dell’avvilimento dell’amministrazione penale a gogna. Ce la consegna Piero Tony, un magistrato che ha stomaco ovvero coscienza e coraggio, uno che il 7 febbraio del 1996 a Firenze mandò all’aria per palese inconsistenza probatoria il processo al “mostro”, inducendo Indro Montanelli a scrivere nel Corriere del suo gesto: “…l’antirequisitoria del procuratore generale Tony, cui incombeva il compito dell’accusa, mi è sembrata uno dei più belli e nitidi scampoli di oratoria forense” contro una corporazione che “conosce e pratica il più delle volte un solo genere di solidarietà: la complicità”.  Infatti il libro-manifesto di Piero Tony è soffocato da un clamoroso silenzio-stampa, e nessuno sembra interessato al ritratto della malagiustizia imperante fatto da un magistrato di sinistra che non chiede posti, prebende e incarichi pubblici di alcun tipo, ma ha la passione, anche malinconica, della verità.

Ecco, la complicità, come diceva Montanelli. E’ inaudito che gli stessi giornaloni impegnati a costruire strepitanti leggende nere sul crimine, che prende il posto della più elementare corruzione e mala amministrazione per trasformare tutto in gogna politica e in manette e carceri speciali, non trovino spazio per dare conto della testimonianza di Tony. Il quale censura “il magistrato intrufolino”, quello che “si appassiona soprattutto a temi mediatizzabili, scrive provvedimenti simili a reportage”, si occupa “dei fenomeni e non dei reati”, vuole non già applicare la giusta misura di legalità ma sdottorare sulla moralità dei tempi. Il magistrato intrufolino, magari quello (dottor Giuseppe Pignatone) che avvia la campagna romano-mafiosa parlando a un convegno del Pd romano a qualche giorno dai primi arresti, con un’apertura-rivelazione piuttosto irrituale del battage mediatico-politico, quello che “consente che si portino in prima serata le indagini preliminari”, mentre le intercettazioni la fanno da padrone nelle indagini, con enunciazioni piuttosto sgangherate che prendono il posto delle prove”, mentre si diffonde (a colpi di querele) “il principio che chi critica chi indaga sulla mafia è o sta per diventare amico della mafia” e “chi critica le modalità di un’inchiesta diventa automaticamente amico se non complice degli indagati”.

Ma Dio solo sa come sia possibile che Mauro di Repubblica, de Bortoli e Fontana del Corsera, Calabresi della Stampa, Cusenza del Messaggero e decine di altri direttori di giornali e tg non si facciano venire in mente che la stanno facendo grossa e fuori del vaso con il bollino mafioso e il casino conseguente, che un sacco di gente perbene è letteralmente esterrefatta dalla trasformazione in romanzo criminale mafioso di una storia di tangenti, appalti dubbi, solidarietà pelose e a carico dell’erario tra enti come certe cooperative, certi partiti, certa classe dirigente che trova irresistibile lucrare sulla funzione che ricopre. Se non ci arrivano da soli alla distinzione tra corruttela e crimine organizzato, ma qui se ne dubita, perché non sono sprovveduti, affidino almeno il libretto einaudiano di Tony, magari dopo averlo letto, a qualche recensore ovvero lo facciano leggere ai pistaroli della mafia romana che seguono questo pasticcio di serie B come fosse la World Cup dei padrini.

Categoria Giustizia

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