Diritto di lesa trattativa. I dubbi di un giurista progressista di fronte alla foga
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dell’ex procuratore Caselli: è ancora consentito ragionare (criticamente) a partire dal processo a stato&mafia?
di Giovanni Fiandaca | 02 Giugno 2015 ore 09:42 Foglio
Non so se devo ringraziare Gian Carlo Caselli per l’attenzione che mi ha dedicato sul Fatto di venerdì scorso, commentando un mio precedente articolo (pubblicato sul Foglio di due giorni prima) a proposito della bocciatura da parte del Tar Lazio della nomina del nuovo procuratore capo di Palermo. Come ho infatti sperimentato anche in passato, il suo stile intellettuale di dogmatico possessore della verità e il suo mai dismesso atteggiamento di soldato sabaudo in combattimento permanente effettivo, impegnato in continue guerre sante sino al punto di perdere la lucidità necessaria a comprendere quel che realmente pensano quelli che non la pensano come lui, non facilitano certo il confronto reciproco. Forse, non potrebbe essere diversamente. La mia mente è abituata a coltivare maggiormente l’analisi critica, senza utilizzare per amor di tesi giochini argomentativi fondati sulla manipolazione interpretativa delle idee altrui. Ciononostante, confesso che continuo a stimare Caselli per il notevole contributo da lui fornito alla lotta alla mafia e aggiungerei – se lui me lo permette – che nei suoi confronti provo in qualche modo e misura anche un sentimento di amicizia. E lo provo pur ricordando che, già una ventina d’anni addietro, andai incontro alle sue risentite reprimende perché ebbi l’estremo ardire – come relatore a un convegno nazionale sulle esigenze di riforma della legislazione antimafia – di prospettare l’ipotesi che fosse opportuno definire meglio per legge i presupposti dell’indeterminato concorso esterno. Scandalo, apriti cielo: come si permetteva uno studioso accademico di avanzare ipotesi che rischiavano di delegittimare le indagini e i processi per concorso esterno che in quel periodo la procura di Palermo gestiva proprio sotto la guida caselliana?
L’abitudine di Caselli di censurare l’altrui libertà di pensiero (e anche scientifica!) in nome di quelle che egli ritiene le superiori esigenze contingenti della macchina repressiva, e in nome della sacrosanta necessità di evitare qualsiasi critica (a suo giudizio) oggettivamente delegittimante l’azione giudiziaria, è dunque risalente e consolidata. Ciò a insistita, partigiana e quasi ossessiva difesa delle inchieste giudiziarie gestite o dirette non solo da lui, ma anche da altri magistrati d’accusa che hanno collaborato con lui o che egli in qualche modo considera suoi eredi spirituali o seguaci ideologici. In questo senso, Caselli potrebbe essere paragonato a una sorta di barone universitario che difende ai concorsi i propri allievi diretti o indiretti. Ma una simile preoccupazione di parte, che ha una lunga tradizione nella vita accademica, può essere automaticamente trasferita all’universo magistratuale?
Come che sia, sta di fatto che l’obiettivo non tanto riposto dell’articolo caselliano critico nei miei confronti risulta essere – ancora una volta – quello di sostenere la superiorità del candidato alla direzione della procura palermitana da lui prediletto (cioè Guido Lo Forte, attuale procuratore capo a Messina ed ex procuratore aggiunto filocaselliano a Palermo) ma, ciononostante, posposto dal Csm al vincitore Francesco Lo Voi. E la prova di questa contingente preoccupazione strategica è data dal fatto che il Nostro ha dichiarato piena adesione a quella parte del mio articolo in cui affermo che l’organo di autogoverno dei giudici, nel preferire il meno titolato Lo Voi ai due più titolati concorrenti Lo Forte e Lari (quest’ultimo procuratore a Caltanissetta ma estraneo al cerchio magico caselliano), avrebbe violato i suoi consueti canoni di giudizio attitudinale. Fin qui, ammette esplicitamente Caselli, sono del tutto d’accordo con Fiandaca.
In quale parte il mio argomentare invece non gli è andato a genio, sino al punto di falsarne spudoratamente il senso (ma è compatibile una così accentuata tendenza manipolatrice con quel minimo di obiettività che chi è stato per decenni magistrato, sia pure del pubblico ministero, dovrebbe essere deontologicamente educato a mantenere?). Non gli è andata a genio, e non a caso, quella parte del mio ragionamento in cui poteva riaffiorare quell’atteggiamento critico da me più volte manifestato rispetto alle modalità di conduzione del controverso processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia. Peraltro questo mio atteggiamento critico, lungi dall’essere isolato, è – com’è noto – condiviso da molti esperti (inclusi non pochi magistrati) e osservatori esterni (tra i quali giornalisti, anche stranieri, di indiscussa fama). E qual è il paradosso, qual è la contraddizione che finisce col colorare di opportunismo cangiante le stesse prese di posizione caselliane? E’ stato, in precedenza, Caselli in persona a scrivere che quella sulla trattativa è “un’inchiesta molto difficile e tormentata, della quale è legittimo ragionare in termini anche piuttosto critici” (cito tra virgolette dall’articolo di Gian Carlo Caselli intitolato “Tiro all’Ingroia sport nazionale”, pubblicato sul Fatto del 15 giugno 2013). A distanza di due anni, il Nostro ha finito col cambiare opinione per polemizzare con Fiandaca?
Anche per il fatto che anch’io (come lui) sono stato componente del Csm, Caselli non può certo impartirmi insegnamenti sulle competenze di quest’organo. So bene infatti che l’organo di autogoverno non può entrare nel merito dei processi in corso, come quello che si sta svolgendo a Palermo sulla cosiddetta Trattativa, per sindacarne o orientarne l’andamento sotto il profilo giuridico e processuale. Sicché, quando io ho scritto che il Csm avrebbe dovuto in teoria avere da tempo il coraggio di fare un processo al processo sulla Trattativa, doveva risultare abbastanza chiaro per un lettore in buona fede e minimamente avveduto che si trattava di un’espressione da intendere in senso non letterale e compatibile con le attribuzioni specifiche del Csm. Come ho più volte spiegato, il tema della trattativa non mi ha mai interessato come evento storico-politico o come evento giudiziario considerati in se stessi: piuttosto, esso funge per me da laboratorio di riflessione che esemplifica con particolare evidenza fenomeni e tendenze giudiziali di portata più ampia, e della cui legittimità alla stregua dei princìpi di fondo della giustizia penale, della deontologia professionale del magistrato e, più in generale, del principio della divisione dei poteri tipico dello stato di diritto è più che legittimo dubitare. E’ in questo ampio e articolato quadro che ritengo che non sarebbero affatto mancati i presupposti per interventi da parte del Csm (a cominciare da quello precedente a questo) volti a verificare le effettive competenze professionali o la correttezza deontologica o la compatibilità con i princìpi costituzionali di non pochi comportamenti, soprattutto, extraprocessuali di alcune ben note figure di magistrati coinvolti nella gestione ed esasperata strumentalizzazione politico-mediatica di un processo che, come quello sulla Trattativa, mai fu forse così simile a un lunghissimo romanzone d’appendice a puntate o a un’interminabile telenovela popolare. Guai, dunque, a farlo davvero finire! Ma, al di là di questa iper-mediatizzazione tradottasi anche in parallele ricostruzioni cinematografiche e rappresentazioni teatrali prospettanti come vera quella Trattativa ancora sub iudice, tra i comportamenti magistratuali meno ortodossi basti ricordare le continue esternazioni televisive, i quasi giornalieri interventi giornalistici e le ripetute orazioni politiche di un notissimo procuratore aggiunto (già proteso verso l’impegno politico diretto!) nei congressi di partito o in altre pubbliche adunanze. Tutti comportamenti extragiudiziari legittimi e, come tali, insindacabili da parte di un Csm rispettoso della libertà di pensiero e di espressione degli stessi magistrati? Non scherziamo con le cose serie. Circa vent’anni fa, Gaetano Silvestri – illustre costituzionalista insospettabile di preconcetta sindrome anti-giudici, ex componente del Csm e oggi presidente emerito della Corte costituzionale – in un libro dedicato ai rapporti tra giurisdizione e ordinamento costituzionale osservava che lo straripamento politico-mediatico dei magistrati, quale ad esempio si manifestava nelle già frequenti esternazioni su indagini e processi in corso o in critiche pubbliche rivolte a partiti o uomini politici, avesse ormai raggiunto (si noti: si era all’anno 1997!) proporzioni tali da provocare “una vera e propria emergenza costituzionale”.
Cosa si è fatto in quest’ultimo ventennio per arginare un’emergenza che, al contrario, è andata sempre più aggravandosi anche nelle forme di un esasperato populismo politico-giudiziario?
E’ probabile che un magistrato d’impronta pubblicamente combattente come Caselli, e tuttora combattente a dispetto del pensionamento, continui a essere portatore di un’ideologia di ruolo che lo induce a dissentire da un drammatico grido d’allarme come quello profeticamente lanciato dal giurista (anch’egli democratico e di sinistra) Gaetano Silvestri. Ma, come Caselli dovrebbe una buona volta riconoscere, si può essere e rimanere giudici o giuristi progressisti senza pensarla necessariamente allo steso modo: senza per questo farsi guerre d’aggressione e di difesa, o essere inquadrati per dogma di fede o decreto di Dio tra gli amici o i nemici della verità e del bene comune. E sarebbe bello poter continuare a ragionare e anche polemizzare, senza che l’interlocutore critico si chieda ossessivamente a quale dei candidati in lizza per un posto direttivo presente o futuro un certo tipo di ragionamento possa giovare.
Ultima, forse non superflua precisazione: Lo Voi, Lo Forte e Lari sono tutti magistrati d’accusa eccellenti anche se con caratteristiche diverse, e tutti idonei a dirigere la procura palermitana. Prescegliere l’uno o l’altro può essere, al limite, questione di gusti. I veri problemi sul tappeto sono altri e riguardano il modo d’atteggiarsi, oggi, del rapporto tra giurisdizione e sistema democratico. Caro Gian Carlo Caselli, ne vogliamo discutere seriamente e con atteggiamento non troppo prevenuto?
Giovanni Fiandaca è Ordinario di Diritto penale all’Università di Palermo
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