La verità sul caso Lo Voi. Il Csm dovrebbe dire che le nomine alla procura di Palermo
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sono legate a una battaglia di civiltà. C’entra la Trattativa e c’entra la guerra all’antimafia giudiziaria fondamentalista e scontrollata
di Giovanni Fiandaca | 31 Maggio 2015 ore 06:18
Francesco Lo Voi è stato eletto capo della procura di Palermo nel dicembre del 2014. Pochi giorni fa il Tar del Lazio ha annullato la nomina
L’annullamento da parte del Tar del Lazio della nomina di Francesco Lo Voi a capo della procura di Palermo, disposta nello scorso dicembre, solleva più di un interrogativo sul modo stesso di operare del Consiglio superiore della magistratura. L’organo di autogoverno dei giudici esplicita sempre e in maniera chiara le vere ragioni delle sue deliberazioni, o preferisce in alcuni casi per prudenza o ipocrisia istituzionale assumere – per dir così – atteggiamenti omertosi che lo inducono, però, a motivazioni destinate a essere bocciate dal giudice amministrativo?
Il caso della tormentata designazione di Lo Voi è in questo senso emblematico. Vale la pena ricordare che il suddetto magistrato è stato infine prescelto dal plenum con una maggioranza di 13 voti a favore, pur essendo un candidato non solo più giovane ma anche privo dei corposi titoli specifici di legittimazione all’incarico vantati dagli altri due principali concorrenti, entrambi dirigenti (in atto) di procure distrettuali e con esperienze pregresse di procuratori aggiunti a Palermo (cioè Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, destinatario di 7 voti da parte dei componenti togati della corrente di sinistra Area; e Guido Lo Forte, procuratore di Messina, beneficiario di cinque consensi ad opera dei colleghi centristi di Unità per la Costituzione). Ora, premesso che Francesco Lo Voi è un magistrato valoroso ed esperto, senz’altro idoneo per il suo eccellente curriculum a dirigere la procura del capoluogo siciliano, rimane nondimeno da chiedersi come mai il Csm abbia deciso di farlo vincere anche a costo di violare palesemente i suoi consueti canoni di giudizio attitudinale: alla cui stregua, proprio grazie al maggiore peso dei titoli posseduti, avrebbero dovuto tranquillamente prevalere o Lari o Lo Forte.
La cosa più normale che l’organo di autogoverno avrebbe potuto fare per giustificare questo strappo alle regole, com’è intuibile, sarebbe consistita nell’avanzare censure di merito sulla professionalità dei due concorrenti più titolati, mettendone in risalto errori o manchevolezze gravi al punto da farli recedere nel confronto con il concorrente meno titolato. Ma questa strada non è stata percorsa perché non era oggettivamente percorribile, essendo i meriti tecnici di Lari e Lo Forte incontestabili anche di fatto.
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Rispondere con nettezza non è facile, e non lo è perché sono in giuoco questioni complicate che hanno a che fare con i limiti di sindacato della giurisdizione amministrativa e, prima ancora, con la dibattuta natura e le attribuzioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A questo proposito, il vicepresidente Legnini – intervistato sul Foglio sabato scorso – ha affermato: “Io ho rispetto per le decisioni dei Tar (…), ma credo che in questa fase storica sia importante che la giurisdizione presti particolare attenzione a un principio che credo sia vitale per tutti: salvaguardare le prerogative costituzionali di ciascuno e dunque il cuore del corretto esercizio della discrezionalità”. Si tratta di affermazioni in parte ovvie nella loro genericità, in parte ambigue. Premesso in punto di diritto che le funzioni di rilevanza costituzionale esercitate dal Csm di per sé non le sottraggono al controllo di legalità da parte del giudice amministrativo, forse Legnini e gli altri laici di questa consiliatura vorrebbero farsi promotori dell’esercizio di una discrezionalità più libera, cioè meno soggetta a criteri di valutazione prefissati dallo stesso organo di autogoverno e maggiormente condizionata invece da indirizzi politico-governativi (imposti, oggi, dal neodecisionismo renziano)? A parte ogni altra possibile considerazione sul piano dei principi costituzionali, dubito che gli attuali componenti togati siano dal canto loro disposti ad assecondare questo stravolgimento del modello di Csm ancora vigente almeno sulla carta.
Rimanendo nel quadro del disegno costituzionale, è verosimile che il Consiglio superiore avrebbe in teoria avuto una sola via a disposizione per esplicitare le autentiche ragioni della bocciatura di Lari o di Lo Forte. Esso avrebbe cioè dovuto, innanzitutto, avere il coraggio – per così dire – di fare un processo al processo sulla trattativa, contestando in forma ufficiale ai magistrati dell’accusa che lo hanno concepito, gestito o anche non impedito gravi deficit di preparazione giuridica e professionalità, profonde carenze di cultura costituzionale e/o gravi scorrettezze di comportamento passibili di censura disciplinare. Ma non basta. Il Csm avrebbe altresì dovuto ipotizzare che le carenze e scorrettezze oggetto di possibile contestazione, lungi dall’essere addebitabili soltanto a singoli pubblici ministeri, fossero geneticamente da collegare a errate scelte di politica giudiziaria antimafia, o a omissioni di guida e controllo, imputabili a loro volta ai magistrati che con funzioni direttive e semidirettive si sono in certi periodi avvicendati nel gestire la procura palermitana: soltanto grazie a questo previo addebito collettivo di (cor-)responsabilità ai magistrati in posizione apicale (ma come dimostrare seriamente la risalente corresponsabilità tecnica o culturale persino di un Lari o di un Lo Forte nel ruolo, dismesso da tempo, di procuratori aggiunti?) sarebbe stato legittimo assumere il criterio della discontinuità rispetto al passato a parametro selettivo del nuovo capo. Solo che questo addebito generalizzato di inettitudine direttiva sarebbe, infine, sfociato in una generale messa sotto processo di una parte non piccola dell’attività giudiziaria di contrasto della mafia svolta a Palermo nel corso degli ultimi anni. Impresa ardua e poco realistica, anche per un organo di autogoverno nella componente laica desideroso di ampliare gli spazi di valutazione politico-discrezionale.
E poi come potrebbe questo Csm, tanto più dopo il colpevole lassismo su questo versante dei consigli che l’hanno preceduto, ergersi all’improvviso a credibile protagonista di svolte deontologiche additanti modelli di magistrato antimafia più compatibili con i principi fondamentali dello stato di diritto? Ma ciò non toglie che svolte simili sarebbero, in linea teorica, più che necessarie per la salute della nostra democrazia.
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