Concorso esterno e giustizia. Contro gli intellettuali e i penalisti disonesti
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La ricerca del bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale. Giovanni Fiandaca spiega perché la magistratura italiana deve far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo
di Giovanni Fiandaca | 15 Aprile 2015 ore 13:22 Foglio
Antonio Ingroia (foto LaPresse)
Dagli addetti ai lavori il concorso esterno viene definito un istituto di prevalente elaborazione giurisprudenziale perché gli elementi che lo costituiscono, com’è noto, non sono previsti in maniera puntuale e dettagliata dalla legge: essi vengono ricostruiti dagli interpreti (dottrinali e giurisprudenziali) grazie ad un adattamento al reato associativo delle norme generali sul concorso di persone. Per carità, nulla di eterodosso in questa operazione di adattamento, la quale si avvale di un metodo giuridico di cosiddetto combinato disposto tra norme che può considerarsi fisiologico nell’attività interpretativa ad opera dei giudici. Solo che questa logica combinatoria, come ho già spiegato su questo giornale nell’aprile dello scorso anno, presenta qualche complicazione in più a causa delle peculiarità del reato associativo, che è a sua volta un tipo di reato sui generis. Da qui la obiettiva difficoltà per la giurisprudenza di procedere a una tipizzazione giudiziale del concorso esterno soddisfacente sotto tutti i possibili aspetti. E ciò spiega perché l’elaborazione dei presupposti di un concorso esterno punibile sia andata progressivamente evolvendo nel corso del tempo, scandita da tre importanti sentenze della Cassazione a sezioni unite rispettivamente del 1994, del 2002 e del 2005. A mio giudizio, nonostante l’ultima di queste pronunce – la cosiddetta Mannino – abbia segnato un significativo passo avanti nel chiarire i presupposti della punibilità del concorrente esterno, l’onestà intellettuale induce a riconoscere che residuano ancora in proposito non pochi spazi di incertezza. Sicché, se è vero che nel nostro ordinamento la Costituzione affida in via prioritaria al legislatore democratico il compito di definire la materia penale, non può che ribadirsi l’auspicio che le forze politiche si responsabilizzino una buona volta e sul serio della spinosa questione. Ma il ceto politico attuale è in grado di precisare con una legge ad hoc la fisionomia tuttora sfuggente del concorso esterno? È lecito dubitarne.
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Comunque sia, la recente presa di posizione della Corte di Strasburgo nel caso Contrada, secondo la quale all’epoca dei fatti (1979-1988) il reato “non era sufficientemente chiaro”, si spiega anche in base a quanto si è detto fin qui. Nel periodo considerato la Cassazione riunita non si era ancora pronunciata sul concorso esterno, il che assume un rilievo tutt’altro che secondario nella prospettiva della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infatti, secondo i giudici di Strasburgo, il principio di legalità penale (art. 7 CEDU) esige che il cittadino sia posto in condizione non solo di conoscere anticipatamente la norma incriminatrice in sé considerata, ma anche di prevederne ragionevolmente l’applicazione che i giudici ne fanno nei casi concreti. Proprio perché la legalità penale viene giustamente concepita anche come prevedibilità degli orientamenti giurisprudenziali, la conclusione cui è giunta la Corte europea nel caso Contrada ha una giustificazione molto plausibile.
È auspicabile, più in generale, che nella magistratura penale italiana aumenti via via la disponibilità culturale a far propri i princìpi garantistici della giurisprudenza di Strasburgo. La giustizia penale, come “arma a doppio taglio”, richiede sempre – piaccia o non piaccia - un equilibrato (ancorché non sempre facile) bilanciamento tra lotta alla criminalità e garantismo individuale.