Greco procuratore di Milano con gli auguri del governo. Ma c’è un ma
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Si ritira Melillo, il candidato di rottura col rito ambrosiano. Vince un patto istituzionale con le toghe. Ma regge? Ambiguità di una fase nuova
Francesco Greco (foto LaPresse)
di Redazione | 31 Maggio 2016
Roma. Alle 17, di fronte al plenum del Consiglio superiore della magistratura, il vicepresidente Giovanni Legnini esordisce dicendo che “con una email, Giovanni Melillo”, attuale capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando, “ha annunciato la volontà di ritirare la sua candidatura”. Nessuna sorpresa, come anticipato dal Foglio. Tra i consiglieri, d’altra parte, i giochi erano fatti da tempo, dentro e fuori dagli equilibri, dalle meccaniche e dalle logiche di scambio delle correnti della magistratura organizzata: con diciassette voti a favore, tre astenuti (i vertici della Cassazione e il laico di Ncd Antonio Leone) e quattro voti per lo sfidante Alberto Nobili, il Csm ha infatti nominato Francesco Greco, sessantaquattro anni, napoletano, esperto di reati finanziari ed ex membro del pool di Mani pulite, nuovo procuratore della Repubblica di Milano. L’incarico era vacante da sette mesi, da quando il 16 novembre scorso, l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati diede l’addio alla toga, lasciando scoperto un ufficio considerato tra i più importanti d’Italia. Determinanti per l’elezione di Greco sono stati i voti del correntone centrista di Unità per la costituzione (Unicost), che nella precedente votazione in commissione si era astenuto sollevando parecchie critiche, e che adesso ha però sciolto ogni riserva e probabilmente si aspetta qualcosa in cambio. Ma la nomina di Greco, in questo delicatissimo momento, tra le mille tensioni e il riaccendersi del conflitto politica-magistrati, tra gli eccessi di Piercamillo Davigo e le pirotecniche confessioni al Foglio di Piergiorgio Morosini, assume un sapore che va oltre le semplici meccaniche interne alla magistratura. Greco arriva con la benedizione di Palazzo Chigi. E’ una mano tesa ai giudici, tra incognite e ambiguità.
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E non è infatti un caso che sia stato il candidato più di rottura con il passato, con la tradizione e il rito milanese (che da decenni si conservano intatti da Manlio Minale a Francesco Saverio Borrelli fino a Bruti Liberati e ora a Greco), cioè Melillo, a ritirarsi dalla corsa ancora prima del voto: l’aria che tirava l’aveva respirata anche lui, dentro il ministero della Giustizia, negli ambienti renziani e di complemento renziano (il consigliere del Csm Luca Palamara), che si accingevano di concerto a sostenere l’elezione del candidato preferito dai magistrati, e anche dal vecchio Borrelli. Si tratta di una scelta professionalmente ineccepibile, come pure lo sarebbe stata anche quella di Alberto Nobili, magistrato più anziano, molto stimato ma dal carattere più defilato, già reggente della procura di Milano (a lui sono andati i voti della destra di Mi e della corrente di Davigo), e come lo sarebbe stata anche quella di Melillo, ex procuratore aggiunto di Napoli, ex consigliere giuridico del Quirinale ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi.
Greco non è un magistrato di quelli che avanzano con il coltello tra i denti, e gli occhi iniettati d’orgoglio luciferino, alla ricerca d’indagini tanto deboli quanto roboanti. Con capacità professionale si è costruito negli anni una preziosa specializzazione nei reati finanziari, e con intelligenza diplomatica ha pure sempre mantenuto rispettosi e cordiali rapporti con i governi e i poteri istituzionali che si sono succeduti dopo lo sconquasso di Mani pulite: fu apprezzato da Giulio Tremonti, che per un certo periodo accarezzò anche l’idea di metterlo a capo della Consob, e anche con il governo Renzi ha mantenuto rapporti collaborativi, come per esempio sul sequestro dei capitali dell’Ilva di Taranto. Eppure Greco si pone in continuità culturale, ideale, e persino affettiva con i suoi predecessori alla procura di Milano: non è dunque il procuratore di rottura che alcuni renziani auspicavano. Piuttosto, la sua nomina, accettata col sorriso da Palazzo Chigi, rientra nel tentativo renziano di tendere la mano alle toghe e chiudere almeno qualcuno dei troppi fronti aperti: con la sinistra del Pd, con il sindacato, con la grande burocrazia e infine con i magistrati, appunto. Si tratta di un’operazione in bilico, il cui risultato è un’incognita per un presidente del Consiglio che si riserva sempre l’opzione di cambiare idea se le cose non dovessero andare come sperato.