Giù la maschera al partito dei giudici
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Oltre il caso Morosini. I tabù che la politica non vuole affrontare sulla politicizzazione della magistratura italiana
di Giovanni Fiandaca | 09 Maggio 2016 ore 15:25 Foglio
Il caso Morosini ha fatto riaccendere i riflettori sulla politicizzazione dei magistrati. Ma, per scongiurare il rischio che tutto si risolva in un ennesimo sintomo di quella nevrosi istituzionale che, come una coazione a ripetere, contrappone da tempo politica e magistratura, bisognerebbe saper cogliere l’occasione per realizzare un salto di qualità nella annosa e ripetitiva discussione.
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Premetto subito che sarebbe a mio parere errato, o comunque riduttivo e controproducente, affrontare le impegnative questioni sul tappeto con lo strumento semplificatore di un’eventuale azione disciplinare. Piuttosto, come studioso che riflette non da oggi sulla interazione sempre più complessa tra sistema politico e sottosistema giudiziario, registro una risalente e persistente omissione: non siamo sinora riusciti, nel nostro paese, a sviluppare un corale e meditato dibattito sul modello di giudice più idoneo a raccogliere le sfide del nostro tempo. Non che le discussioni sul ruolo della magistratura siano mancate. Anzi, se ne è parlato sin troppo, ma quasi sempre con intenti pregiudizialmente polemici e con un approccio strumentale, rispettivamente, a una preconcetta critica o a una altrettanto preconcetta difesa dell’operato dei giudici. Con l’aggravante di dover prendere atto che la sinistra politica tende a volte a utilizzare gli stessi argomenti critici della destra quando l’azione giudiziaria colpisce al suo interno. Non sorprende, in questo contesto opportunistico, che politica e mondo mediatico sembrino continuare a vagheggiare l’irrealistico e ipocrita modello del giudice “bocca della legge”, che applica cioè le leggi senza interpretarle: ma, mentre per la sinistra e un certo travaglismo giudiziario ‘applicare la legge’ molto spesso equivale a condannare senza se e senza ma, per la destra e la stampa cosiddetta garantista limitarsi a una rigorosa applicazione della legge dovrebbe in non pochi casi comportare una rinuncia a perseguire penalmente o una minore punizione.
Sennonché, il discorso è purtroppo più complicato. Le stesse leggi penali, per potere essere applicate, non possono, infatti, non essere preventivamente interpretate. Ecco, allora, il vero problema col quale non è facile fare i conti, per cui è più comodo rimuoverlo: come conciliare la libertà interpretativa con la imparzialità politica che, in linea di principio, dovrebbe connotare l’attività giudiziaria?
La discrezionalità, a seconda dei casi più o meno ampia, inevitabilmente connessa all’interpretazione giudiziaria, funge infatti da porta di ingresso per un insieme eterogeneo di fattori di condizionamento di natura ‘extra-legale’: fattori che vanno dagli orientamenti politico-culturali della corrente di appartenenza al sistema personale di valori, alla fede politica e alla sensibilità del singolo magistrato. Ora, una libertà interpretativa influenzata da opzioni di valore è stata consapevolmente teorizzata da una corrente come Magistratura democratica, che non a caso è quella che si è tradizionalmente distinta rispetto alle altre correnti per una maggiore capacità di elaborazione culturale. E la spiccata attenzione per le valenze politiche dell’attività giurisdizionale ha, contemporaneamente, alimentato forme di proiezione pubblica e di militanza extra-giudiziale così esplicite, anche sul piano dell’esposizione mediatica, da trasformare il magistrato in uno degli attori politici che occupano la scena pubblica.
Questo protagonismo politico-mediatico, via via diffusosi aldilà delle cerchie della magistratura progressista, rappresenta non solo un peculiarità italiana, ma – per chiamare senza pudori le cose col loro nome – una perdurante “emergenza costituzionale”. Anche se può suonare blasfema alle orecchie di non pochi magistrati che pure stimo molto e cui sono legato da rapporti amicizia, la impietosa diagnosi in chiave di emergenza costituzionale non è un’escogitazione dell’ultima ora sospettabile di filo-renzismo contingente: essa risale in verità a un costituzionalista come Gaetano Silvestri, oggi presidente emerito della Consulta, il quale l’ha espressamente formulata già in un libro del 1997. Da allora, l’esposizione pubblica dei magistrati-attori politici, lungi dal regredire, è progressivamente aumentata. Ma il fatto che questo fenomeno si sia diffuso in tale misura, anche grazie ad una interessata complicità del sistema mediatico, da rientrare ormai in una consolidata prassi, non vale di per sé a renderlo compatibile col quadro costituzionale: se fosse sufficiente la “forza normativa del fattuale” a decide di ciò che è costituzionalmente legittimo o illegittimo, che bisogno avremmo più di una Costituzione scritta?
Nello svolgere la relazione conclusiva a un recente convegno di formazione professionale per magistrati, mi è capitato di esprimere – non senza ingenuità professorale – un auspicio: l’auspicio cioè che i magistrati, riducendo la loro presenza nei media e la loro partecipazione alla contesa politica (anche quando sono in ballo riforme costituzionali) tornino e manifestare le loro idee soprattutto nelle riviste giuridiche e nelle diverse sedi della riflessione specialistica. Nello stesso tempo, ho richiamato l’attenzione sull’esigenza che la discrezionalità interpretativa, per non sfociare in libertinaggio o arbitrio ermeneutico, soggiaccia a limiti e contrappesi: limiti e contrappesi che, non potendo essere autoritativamente imposti dal sovrano di turno (neppure da quello democratico), dovrebbero trarre origine da una cultura costituzionale, da una coscienza del ruolo e da una competenza tecnico-professionale all’altezza dei tempi. Tanto più che oggi è la Corte di Strasburgo a esigere che la certezza giuridica venga declinata anche in chiave di prevedibilità della decisione giudiziaria da parte del cittadino. Alla fine della mia relazione conclusiva, un pubblico ministero mi si è avvicinato per ringraziarmi di indurlo, per effetto del mio discorso, a rifare i conti col mestiere di giurista. L’ho preso come un complimento, che tuttavia per altro verso la dice lunga su come da qualche tempo vanno le cose nell’universo della giustizia...!
Delle carenze culturali e tecniche riscontrabili almeno in una parte della magistratura sono responsabili, oltre alla formazione universitaria di base, il Csm e il sistema della formazione professionale. Dal canto suo, l’organo di autogoverno è stato sempre meno in grado di esprimere capacità di orientamento per la condotta dei magistrati, specie di quelli pubblicamente più in vista e circonfusi di aurea simbolica (anzi, il ruolo fortemente protagonistico dei magistrati-star ha contribuito a depotenziare e offuscare la funzione di orientamento e controllo del Csm): per cui il Consiglio superiore non è riuscito a orientarsi in modo tale che il sacrosanto diritto alla libera manifestazione del pensiero non trasmodi, per i modi e i luoghi in cui il giudice la esercita, in un atteggiamento politico (anche apparentemente) di parte.
Quanto poi al sistema formativo, non credo di essere ingeneroso nel lamentare che esso si è finora rilevato complessivamente inadeguato a far maturare quella cultura giurisdizionale e quella consapevolezza costituzionale necessarie a fare buon governo della discrezionalità interpretativa. Detto più chiaramente: i magistrati non non vengono educati a coltivare quel self-restraint, quel senso del limite coerente con il principio della divisione dei poteri e con la conseguente necessità di tenere tendenzialmente distinte interpretazione e creazione giudiziale del diritto.
Il discorso andrebbe specificato molto più di quanto sia consentito in questa sede, anche perchè il diavolo si annida più che nei principi generali, nei dettagli che dovrebbero concretizzarli. Ma forse ce n’è già abbastanza per ribadire l’esigenza di aprire un dibattito e un confronto senza infingimenti, senza guerre di religione, senza che politici e magistrati pensino di impersonare visioni opposte della costituzione e del bene comune. Fuori da paure e sospetti reciproci, retropensieri, furbizie e tatticismi contingenti. L’atteggiamento ‘politicistico’, se è forse ineliminabile dall’agire politico, non giova certo all’immagine pubblica e alla credibilità della magistratura.
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