Libia: ecco i complici del Califfo
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“GUERRA DA MATTI. Ignoriamo le nefandezze di decine di tiranni, ma con Ghedaffi siamo inflessibili per spirito umanitario. Libero 2011” . Noi l'avevamo detto.
Sì, lo so: una frase così non si dovrebbe scrivere mai.
Ma poiché quelli che hanno codificato questa regola sono proprio coloro non ce l'avevano detto, ma anzi ci avevano raccontato l'esatto contrario, i corifei della teoria che ci ha portati sull'orlo dell'abisso, gli aedi delle "primavere arabe" da appoggiare a prescindere da ogni buon senso e da qualsivoglia interesse nazionale in nome dell'ideologia suprema; ecco, visto che questi sono i custodi delle regole, allora all'inferno le regole. Adesso che la Libia si è trasformata nel prevedibile incubo jihadista alle nostre porte, è venuto il momento di denunciare i responsabili di questo orrore. E tra di loro, in prima fila, ci sono i nostri politici di sinistra, Napolitano in testa, e il codazzo conformista di quotidiani e televisioni che davano fiato alle trombe per incensare l'invincibile armata che andava ad appoggiare le "rivoluzioni popolari" e a deporre a suon di bombe più o meno deficienti il "pericolosissimo tiranno" Muhammar Gheddafi.
Quattro anni fa, quando questo avveniva, noi di Libero in solitudine pressoché perfetta titolammo: «Guerra da matti». Così come quando il coro del giornalismo unico accompagnava i proclami del Nobel della pace Obama a favore del conflitto "umanitario" contro Assad, noi soli in Italia avvertimmo della demenza del proposito, evidenziando come i nemici di Damasco fossero i nostri peggiori avversari, quegli integralisti islamici che ora formano la spina dorsale dell'Isis. Sì, proprio quelli che sgozzano, crocifiggono, decapitano, bruciano vivi gli ostaggi. Quelli che ci minacciano di morte e distruzione. Quelli che sparano e uccidono nelle nostre città. Quelli che ora tutti esecrano, ma fino a pochi mesi fa appoggiavano, eccitati come ragazzini, al grido di "dàgli al tiranno".
Perché la nostra sinistra, politica e giornalistica, è così. Basta che qualcuno vada in piazza per trovarsi automaticamente dalla parte della ragione. A meno che, ovviamente, non lo faccia contro un regime comunista illegalmente costituito: quindi la regola non valeva in caso di movimenti popolari ungheresi negli anni Cinquanta, nella Praga di Dubcek, nella Cuba di Castro, nella Tienanmen del glorioso partito maoista, eccetera. Ma insomma, a parte queste eccezioni, chiunque riempia le strade e "protesti", per le nostre maîtresse a penser è sempre da sostenere. Che abbiano torto o che addirittura siano fanatici sanguinari non ha la minima importanza. È sufficiente che il loro bersaglio in qualche modo si possa definire un dittatore (fascista, certo: quelli di sinistra sono "guide del popolo") e via col tifo: viva Khomeini, viva i Fratelli musulmani, viva il Diavolo. Basta che sia "rivoluzionario". Tanto, quando poi si scopre chi sono realmente gli "eroi" che abbiamo appoggiato, oplà: basta una piroetta e il gioco è fatto. Ed ecco i nostri politici, i nostri intellettuali, i nostri opinion leader che spiegano in tv e sui giornali come e qualmente siano stati commessi imperdonabili errori, glissando con incredibile faccia di tolla sul fatto che loro erano gli sponsor entusiasti di quegli "imperdonabili errori" e i fustigatori implacabili di chi, come noi, li faceva notare per tempo. Noi per loro eravamo i servi di Berlusconi che timidamente aveva cercato di opporsi alla guerra di Libia e poi aveva ceduto, venendo da Libero attaccato per questo. Negli stessi giorni, giusto per fare un esempio tra i mille, il direttore di Repubblica Ezio Mauro scriveva: “Qualcuno spieghi a Berlusconi che quando i popoli possono riconquistare la loro libertà, l’Occidente ha un dovere preciso che viene prima di tutto: stare dalla loro parte”.
Ma si sa: questo è un Paese senza memoria. Cerchiamo di rinfrescargliela. Ricordate la retorica della democrazia dal basso? Gli appassionati reportage tra i giovani arabi che organizzavano la rivoluzione via Twitter? Le dotte disquisizioni sul dovere morale di aiutarli? I dibattiti sulla necessità, in questo caso, di mettere da parte il sacrosanto pacifismo e impugnare le armi? Tutta roba a reti e stampa unificate. Ecco, Libero scriveva l'esatto contrario. Quando Parlamento, Rai, La7, Mediaset demonizzavano Assad e invocavano il suo "democratico" rovesciamento, Libero metteva in guardia sulle fratellanze musulmane che stavano impadronendosi della rivolta siriana, prodromo al Califfato dell'Isis. Quando Pd, Corriere, Repubblica, Stampa si accodavano come cagnolini scodinzolanti ai roboanti proclami anti Gheddafi di francesi e inglesi e di quel monumento all'incompetenza che risponde al nome di Barack Obama, Libero e pochissimi altri organi di stampa indipendenti ammonivano che il vero obiettivo degli "alleati" era mascherare i loro fallimenti interni e fregarci gli affari su gas e petrolio in Libia. E scrivevamo che sì, Gheddafi era brutto sporco e cattivo ma ci garantiva controllo sull'invasione di clandestini e regolare flusso di carburante. Che sì, Gheddafi faceva schifo, ma quelli che avrebbero riempito il posto lasciato libero da lui e dai suoi sgherri ce lo avrebbero fatto amaramente rimpiangere. Che sì, sotto il suo tallone non fioriva certo la democrazia, ma era un Eden al confronto di quel che sarebbe venuto dopo. E che quindi un minimo di sana real politik e di cura degli interessi nazionali avrebbe consigliato di tenerlo al suo posto, anziché farlo fuori senza avere neppure uno straccio di idea su come muoversi un minuto dopo.
Ed eccoci qui: tutto quello che avevamo previsto e scritto più e più volte, con più e più firme, per più e più mesi si è puntualmente verificato. E non è questione di appuntarsi medaglie al petto: non era poi così difficile decodificare in maniera corretta quello che stava accadendo. Ma proprio per questo non è tollerabile vedere, ascoltare e leggere quelli che quattro anni fa ci trattavano con disprezzo rinnegare senza pudore tutto ciò che avevano detto facendo finta di non averlo mai detto. È andata in un altro modo: giusto perché si sappia.
Massimo de' Manzoni, Libero 16.2.2015