Se le parole del Papa sono stampate su un cartello
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islamista che condanna la nostra libertà d’espressione
di Giuliano Ferrara | 14 Febbraio 2015 ore 06:27 Foglio
Non era una gaffe, quella di Papa Francesco sulla “normalità” della risposta violenta alle offese verso ciò che abbiamo di più caro (il dire male di tua madre, il pugno come risposta eccetera). Lo osservammo qui subito dopo, spaventati per ipotesi più sinistre di un rivelatore incidente di linguaggio, di un lapsus. Vuoi vedere che il capo della chiesa cattolica intende coscientemente fiancheggiare la repulsione islamica verso una nostra libertà occidentale, laica, e sceglie di mettersi da quella parte con la metafora del pugno, che insieme addomestica e giustifica il funzionamento del fucile a pompa di Charlie Hebdo? Purtroppo avevamo ragione, e ne è seguita una tragica prova.
Nel corso di una manifestazione a Londra, indetta contro il diritto alla libera espressione della critica satirica delle religioni, un giovanotto issato sulla folla inalberava un cartello con su scritto: “Se parli male di mia madre ti darò un pugno. Firmato Pope Francis”. La cosa ha avuto un microscopico rilievo nell’informazione, ma è enorme. E’ un marchio madornale di significato su un atto verbale autorevole del Papa.
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Gli islamici sono gente seria, credente, tenace. Non accettano che si mettano in burla il Dio in cui credono e il suo Profeta Maometto. Non perdonano, come si è visto con la strage del 7 gennaio scorso nella redazione di un giornale satirico di Parigi. Come si è visto con Rushdie e altri atti di persecuzione, non soltanto diretti a reprimere con la morte l’irrisione della religione, condanne della semplice critica per non dire dell’apostasia. Ma non è questione di fanatici isolati, combattenti islamici privi di un sostegno nella umma, nella comunità di cultura e di fede e di legge civile che è la moschea universale. Si sono moltiplicate in queste settimane, dalla Cecenia a Londra, nei paesi arabi, dovunque sia in vigore la legge coranica, Europa compresa, manifestazioni di ira funesta. In un clima da perfetta “Sottomissione” uno psicoanalista spiegava ieri sul Venerdì di Repubblica che la libertà è una miccia d’innesco dello scontro di civiltà, che l’autocensura politicamente corretta nel mondo anglosassone è superiore alle pretese libertine degli intellos parigini, che gli islamici non vogliono ridere delle nostre vignette perché “sono convinti – non sempre infondatamente – di avere nella borsa meno soldi ma più dignità”. Dopo la epica sbornia volterriana del “JeSuisCharlie”, a freddo, o meglio nel tiepido del poco tempo ch’è passato, viene fuori la verità corretta. La loro violenza difende la loro dignità.
Questa può essere una libera opinione, per quanto cinicamente l’argomento disattenda il dettaglio che non si sta giudicando la satira (che è volgare, forse anche insopportabile) ma la reazione stragista contro di essa. Ma il bollo predicatorio del capo della chiesa, che nei cartelli dei manifestanti diventa una seconda lapide sulla sepoltura dei vignettisti, è affare molto più imbarazzante. Mettiamo da parte la celebrata misericordia, che è uscita di scena e si è trasformata in vendetta canonica a favore di telecamera. Fior di gentiluomini laicisti e secolarizzati avevano salutato l’avvento di un Papa progressista, in sintonia con il moderno, capace di restituire l’azzardo spirituale della libertà personale a una religione compressa in forme inumane dalle norme moralistiche di papi teologi. Ci ritroviamo con un cartello che legittima la strage a difesa della dignità della fede, firmato Pope Francis.